mercoledì 22 settembre 2010

Pinocchio.2112

In un giorno di qualche mese fa, mi pare fosse primavera, la mia copia di “Pinocchio 2112” di Silvio Donà (sito: qui) giaceva seminascosta fra i soliti noti della sezione “Fantascienza” (meno magra del consueto, a dire il vero) di una libreria periferica di Roma. Il dorso scuro e sottile aveva attirato la mia attenzione come una fogliolina nera in un tappeto di vissute e ampie foglie gialle e, quando lo sfogliai, trovai conferma del fatto che mi ero imbattuto in una rarità: un libro, classificato come “romanzo di fantascienza” (al momento unico di questo genere per i tipi di Leone Editore), imprigionato fra gli ubiquitari Cosmo Oro e i mai tramontanti P. K. Dick d’annata. La quarta di copertina sembrava intrigante, e non esitai ad acquistare il volume.
Confesso che da allora sono dovuti passare molti mesi prima che lo leggessi, a causa di una congestione del traffico librario nella mia stanza da letto (evenienza non inusuale in questi ultimi anni).
Ci tengo a dire che, iniziato un libro, dopo i primi due o tre capitoli mi diverto a tentare di prevedere il tempo che impiegherò a terminarlo. A Pinocchio 2112 avevo dato, nonostante la brevità del romanzo, all’incirca una settimana, con una probabilità discreta di abbandono (pratica di cui, per inciso, sono un sostenitore), riconducibile alla mia avversione per quel pessimismo cosmico narrativo, del quale, sbagliando completamente, pensavo di aver captato l’odore fra le prime pagine.
Ricredersi può essere particolarmente bello. 
Cambiare opinione, sentire come, riga dopo riga, un libro ti catturi fino alla schiavitù,  e lasciarsene dominare fino a notte fonda. E così, la settimana messa in preventivo si è ridotta a non più di trentasei ore (sarebbero state anche meno, se non vi fossero state grane personali che hanno diluito il tempo dedicato a questa lettura).
Pinocchio 2112 è la prova che al di fuori dei circuiti più canonici e blasonati, la fantascienza italiana si alimenta, anche e spesso, di storie che brillano di luce propria, composta dai colori dell’originalità, della bellezza e di una convincente forza narrativa.
Ci troviamo cento anni nel futuro, in un mondo buio, sotterraneo, in cui la popolazione terrestre ha dovuto rifugiarsi per non ben precisate ragioni. Uno scenario post-apocalittico alquanto inconsueto. Le donne e gli uomini sopravvivono a stento. Il cibo scarseggia, le città sono grovigli di tunnel che cercano di imitare l’aspetto della vita precedente, in superficie. Una parvenza di ordine sociale è preservata grazie a organizzazioni di stampo mafioso, guidate da uomini potenti e rispettati, come il misterioso e carismatico Scipione Rega.
Ci si arrabatta come meglio si può, avere un’arma è tanto difficile quanto consigliabile, il denaro è rimpiazzato dalle pastiglie di droga necessaria per non impazzire. L’arte di arrangiarsi regna sovrana, l’umanità si nasconde a se stessa, e il ricordo della vita in superficie è ridotto a mito ormai sepolto in un irraggiungibile passato.
In questo mondo desolato, il protagonista ci racconta la sua storia.
Angelo è un “cercatore di passato”. L’uomo si aggira nelle zone più infide della città sotterranea, confidando nelle sole tre pallottole della sua vecchia e sgangherata pistola, alla ricerca di un bene prezioso, unico segno tangibile della gloriosa esistenza di un tempo: i libri. Dimenticati dai più, i libri sono diventati veri e propri reperti archeologici, abbandonati sotto vecchi mobili rovinati su pavimenti non più calpestati da esseri umani degni di questo nome, scivolati nei recessi più insidiosi del sottosuolo, ingolfati nei gorghi di un passato che è tanto difficile dimenticare quanto rammentare. Angelo si guadagna così le pastiglie con cui andare avanti, e non si lamenta nemmeno troppo della sua vita, che, nonostante la dose di rassegnazione da assumere quotidianamente, considera dignitosa.
Un giorno, per interposta persona, il nostro riceve da Scipione Rega l’incarico di scovare un libro adatto alla donna di questi. L’incarico si tramuta presto in  ordine perentorio, da cui può dipendere la sopravvivenza. E qui la storia si complica, e per vari motivi, che ovviamente non approfondiremo.
La trama che Silvio Donà ha sviluppato è tanto semplice quanto efficace; l’io narrante costringe a seguire il protagonista in ogni movimento sottoterra, ad accompagnare i suoi passi pieni di terrore, quasi a volerlo  proteggere, consigliare, aiutare. Il ritmo è rapido, non ci sono pause, si è obbligati a correre, con Angelo, dietro Angelo, per Angelo. E ci si può permettere di riprendere fiato solo nell’istante in cui si legge il numero di ogni capitolo, perché in ogni capitolo accade qualcosa di grande, qualcosa di nuovo, senza intermezzi e senza fronzoli.
In un simile scenario, molti autori avrebbero forse perseguito strade di comprovata efficacia, nonché di scarsa originalità, basate sulla potenza di sentimenti essenziali come la vendetta, oppure l’odio, o di bisogni primari come la fame e la sete, giustificando qualunque scelta con la insopprimibile ed istintiva necessità di sopravvivere che non può non attanagliare ogni spicchio di un mondo tanto infausto.
Per fortuna (e si fa per dire, la fortuna c’entra ben poco), Donà prende una strada del tutto diversa. Nonostante la paura della sconfitta lo accompagni senza sosta, il protagonista non se ne lascia mai sopraffare, e compie scelte inattese, che lo porteranno a realizzazioni imprevedibili, ad azioni sorprendenti, in un crescendo di scoperte che si verificano all’interno dei rapporti intessuti con i pochi e ben tratteggiati personaggi della storia.
E così, con una miscela di impetuosa delicatezza e di brillante ironia, e senza mai scivolare in un indigesto buonismo, l’autore ci sussurra che l’essere umano è in grado di rimanere tale nonostante la disumana avversità dello scenario in cui può suo malgrado ritrovarsi. Che ribellarsi all’abdicazione del sentire dell’esser donne, e uomini, è la natura stessa delle donne e degli uomini. Che un’irrazionale esigenza di conservare la propria umanità prevale su ipotetici e inesistenti istinti animaleschi. Che la forza e la violenza sono due cose diverse, e che l’esigenza di realizzare se stessi supera la fame, l’angoscia e il terrore dell’ignoto.
Una scelta coraggiosa.
C’è chi sostiene che nei romanzi non bisogna mai parlare troppo di sé. Io invece, controcorrente, penso che lo si possa fare, ammesso di esserne capaci. Potrei sbagliarmi, ma la mia sensazione è che Silvio Donà lo abbia fatto, e nel modo giusto, trasformando elementi reali in temi letterari fantastici, e facendo della propria esperienza una fonte di creatività nella quale di quell’esperienza non rimangono che tracce vaghe, un po’ come il ricordo sbiadito della vita all’aria aperta che i protagonisti di Pinocchio 2112 hanno ereditato dai loro progenitori.
Molti sono gli ingredienti che contribuiscono al buon sapore che Pinocchio 2112 lascia in bocca.
Leggendo questo romanzo chi è padre avrà più di un sussulto, e chi non lo è rimarrà affascinato e incuriosito. Leggendo questo romanzo si ameranno di più i libri, soprattutto quelli dimenticati, soprattutto quelli dell’infanzia. Leggendo questo romanzo si rammenteranno i primi amori dell’adolescenza, e con essi il timore, la complicità, il rischio del desiderio più puro. Leggendo questo romanzo si capirà il valore della parola di un uomo e la necessità sacrosanta di alcune, piccole, grandi bugie. Leggendo questo romanzo, come per ogni buon romanzo, si diventerà un pochino più felici di essere al mondo.
E si troverà la luce di cui si sentiva il bisogno nelle prime pagine. Persino laggiù, sottoterra.
Dire di più non si deve. Se non vi ho ancora convinti, ascoltate qualche passaggio, in questo booktrailer che ho sentito il desiderio di realizzare appena ho chiuso questo bellissimo libro.
E poi, fatevi un regalo. Ordinate Pinocchio 2112, qui.


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