lunedì 29 marzo 2010

Come si sceglie di pubblicare un libro?

Alle 15.00 dello scorso venerdì 26 marzo, in seno alla neonata manifestazione Libri come – Festa del Libro e della Lettura, e in una sala gremita di partecipanti, otto rappresentanti (editor e/o fondatori e/o AD) di medie e grandi case editrici italiane esprimono a turno il proprio punto di vista sulle motivazioni che soggiacciono al processo di selezione dei manoscritti.
Il titolo è tanto semplice quanto ghiotto: "Come si sceglie di pubblicare un libro".Comunque la si pensi sull’editoria in Italia, un simile occasione è più unica che rara.
La sessione è moderata da Stefano Salis, responsabile delle pagine di “Letture” dell’inserto culturale del quotidiano Il Sole 24 Ore, il quale è solo il primo, sul palco, fra coloro che si diranno stupiti della quantità di pubblico in sala.
Non chiedo in giro, ma sono convinto che a parte qualche giornalista, seduti in quelle file immerse nella semi-oscurità siamo tutti scrittori o aspiranti tali.
C’è poco da meravigliarsi, dunque, non credete anche voi? Sul palco ci sono quelli che decidono cosa è grano e cosa è miglio.
La tavola rotonda si apre con l’intervento di Sandro Ferri (Edizioni e/o), che rappresenta il caso eccezionale di un'azienda italiana che è giunta ad aprire una filiale negli USA, il quale getta le basi per l’intera sessione, distinguendo fra fattori relativi a filtri soggettivi, prevalentemente legati alle emozioni suscitate da un testo, e quelli oggettivi, relativi invece alle logiche di mercato e alla linea intrapresa dalla casa editrice; in tal modo Ferri introduce l’interessante concetto di “progetto” editoriale (su cui si è molto argomentato nel corso dell’intera sessione e ancor più durante la discussione finale), ovvero l’impronta caratteristica della missione della casa editrice, imperniata su una sorta di patto stipulato con i lettori che giungono così a riconoscere in un marchio una ben precisa tipologia di prodotto, una determinata selezione di autori e in ultima analisi una specifica caratterizzazione letteraria.
Prende poi la parola Gianluca Foglia (Feltrinelli), che cita la celebre definizione di Daniel Pennac del cosiddetto Passeur, il mediatore culturale, che deve stimolare negli altri la necessità della lettura. Compito dell’editore secondo Foglia è mettere in atto una sorta di profezia, di “pre-visione” in senso letterale, ovvero la valutazione della possibilità che il manoscritto che ha fra le mani diventi un libro reale con una copertina di un certo tipo e una quarta, o un’aletta, scritte in un dato modo; si tratta cioè di immaginare il volume, attraverso e dopo la pubblicazione, nelle fasi di produzione, packaging, promozione, comunicazione a mezzo stampa e quant’altro. È come se l’editore si arrogasse in qualche modo la facoltà di presumere verosimile quest’immagine o di scartarla, semplicemente sulla base delle sensazioni evocate dal testo in lettura. A questo esercizio di “preveggenza” concorrono più realisticamente tre assi decisionali di base: quello estetico (la validità del testo), quello economico (più concretamente legato alla necessità di un profitto) e quello politico-culturale (ovvero la coerenza con il contesto storico di riferimento).
Questi tre criteri vengono subito ripresi da Ernesto Franco (Einaudi), che nel suo intervento tiene a precisare come essi operino sempre in maniera congiunta, e mai l’uno isolatamente dall’altro. Il che da un lato contribuisce ad escludere interpretazioni parziali del ruolo dell’editore come finanziatore (impresa allo stato puro governata dal profitto) o come operatore culturale (istituto di ricerca puro svincolato dalle dinamiche economiche), dall’altro fa sì che nell’azienda editrice possa talora generarsi una lungimiranza persino maggiore di un ente di ricerca pura, quale l’Università, in quanto filtrata e orientata da una opportuna valutazione economica. Franco sottolinea inoltre la interessante distinzione fra la “novità” editoriale, destinata per definizione ad essere superata da una successiva proposta, e ciò che è invece intrinsecamente “nuovo”, ed è pertanto destinato a durare indipendentemente dai contesti e dai mutamenti culturali.
È quindi la volta di Emilia Lodigiani (Iperborea), che della giovane casa editrice che rappresenta è fondatrice. È questo il caso di un’azienda che della peculiare modalità di selezione dei manoscritti, eminentemente geografica, ha fatto il suo simbolo; Iperborea pubblica infatti esclusivamente letteratura di area baltico-scandinavo-neerlandese, una scelta che fu basata a suo tempo sulla scarsissima diffusione in Italia di autori della zona geografica in questione. Ciò ha consentito di proporre in blocco al lettore italiano caratteristiche che sono proprie non solo degli autori, ma anche della cultura popolare e letteraria dei paesi del Nord. Caratteristiche che esercitano una fascinazione che non è aliena al successo ottenuto, quali l’elevato grado di welfare e qualità della vita, una senso della natura straordinario, un modello culturale basato su una forte identificazione fra autore e testo in termini di investimento personale del primo nel secondo, e infine due fattori determinanti: la vivida potenza della tradizione orale nordica, che è progenitrice della narrativa moderna, e il coraggio nell’affrontare a viso aperto tabù che nell’area mediterranea vengono evitati con cura, o nel migliore dei casi trattati con strategico cinismo. In merito all’asse economico, Emilia Lodigiani tiene a precisare che se è vero che anche un libro è un prodotto, il suo contenuto umano eccezionalmente elevato lo rende molto più “anarchico”, irrispettoso cioè delle regole vigenti negli altri settori merceologici.
Stefano Mauri (Gruppo Editoriale Mauri Spagnol) rappresenta in seguito alle recenti acquisizioni un gruppo di ben 17 case editrici diverse, che hanno però conservato ciascuna il proprio marchio. GEMS ha 7 uffici di scouting sparsi nel mondo e vaglia complessivamente a livello internazionale 6000 proposte l’anno da cui si arriva a una selezione di 150 pubblicate. Nella sua esperienza, che ruota attorno alla necessità di individuare criteri che possano valere per un gruppo tanto eterogeneo, e dando prova di inequivocabile pragmatismo, Mauri riduce le variabili decisionali essenzialmente a due: mercato e gusto. I criteri a carattere etico sono infatti sostanzialmente sostituiti da quelli legali, ovvero la semplice valutazione dei limiti alla pubblicabilità. Il gusto, ossia il livello di gradimento del manoscritto in valutazione, in realtà rappresenta solo il 20% iniziale dell’opera di selezione; il restante 80% è costituito dalle varie fasi della filiera del marketing che lo trasformano in un prodotto finito.
Antonio Sellerio (Sellerio) riporta il filo della tavola rotonda all’importanza del contesto culturale, e lo fa in maniera originale, proiettando in sala le immagini dell’itinerario che svolge ogni giorno a Palermo, in automobile, spostandosi dalla sua casa alla sede di lavoro. Il fatto che, per ovvie ragioni geografiche, Palermo sia relativamente emarginata da grandi università, dalle sedi dei quotidiani nazionali, e dalle aree in cui vi è la maggiore quota del mercato dell’editoria, riduce in qualche modo il grado di libertà della scelta e di conseguenza la possibilità di affermazione imprenditoriale. Alcuni degli autori pubblicati da questo editore si sono infatti trasferiti a Palermo, e fra essi vi sono persino due stranieri. Ciononostante Sellerio resta una casa editrice indipendente. Con onestà, Antonio Sellerio riconosce nella fortunata circostanza della fedeltà di Andrea Camilleri un fattore chiave del successo iniziale, nonché della possibilità che in una seconda fase i lettori avessero accesso al resto del catalogo. Le scelte imprenditoriali di questa azienda a vocazione familiare sono certamente state atipiche, ma ad oggi si sono rivelate vincenti: in particolare, fra esse, la rinuncia a modificare veste grafica e dimensioni dei libri (modifiche finalizzate a un più elevato costo copia) ha reso nel tempo facilmente identificabile il tipico volume di piccole dimensioni e dal colore blu, e il rifiuto di pubblicare autori di calibro per una presunta incompatibilità con il proprio progetto editoriale ha contribuito ad una caratterizzazione ben precisa dell’editore presso il pubblico. Una nota interessante: con i suoi autori, Sellerio non stipula di regola contratti multipli né “al buio”, ovvero prima della stesura di un nuovo testo.
La parola passa a Massimo Turchetta (Mondadori), che precisa che fino a questo momento l'incontro si è concentrato sulla narrativa, mentre i criteri per la valutazione della saggistica sono ben diversi. L’editore chiamato a selezionare un saggio ha il compito di individuare un “vuoto” in una determinata area culturale o scientifica, nel quale ritiene vi sia un’esigenza di “riempimento”, come nel caso del saggio di Federico Rampini sull’economia vista dall’oriente, che è stato frutto di una proposta dell’editore all’autore (e non viceversa). Nella narrativa invece, è determinante il progetto editoriale, che per i grandi gruppi (Mondadori pubblica 1250 novità all’anno) non accomuna ovviamente l’intera azienda ma una sua singola linea o una collana.
In merito alla selezione in generale, Turchetta ricorda la fondamentale importanza del ruolo svolto dagli editor e cita in merito il caso di "Gomorra", il cui manoscritto, dopo una prima lettura, venne addirittura fotocopiato all’interno dell’azienda e, diventando oggetto di un vero innamoramento progressivo e collettivo, distribuito a tutte le figure chiave. La mission di Mondadori è quella di incontrare il gusto del pubblico, avendo come obiettivo auspicabile il raggiungimento dell’eccellenza.
La tavola rotonda viene chiusa da Paolo Zaninoni (Rizzoli), ultimo a parlare, secondo l’ordine alfabetico che è stato rigorosamente adottato persino per far sedere i relatori sul palco. Zaninoni ricorda l’importanza della “visione”, e cita in merito, mutuando l’esempio dal mondo cinematografico, il caso di Robert De Niro, che dopo il fiasco subito con un film da lui prodotto sulla base di un libro, riconobbe la propria carenza di visione come causa di quel fallimento. Ancora in tema di saggistica, Zaninoni aggiunge che in realtà l’ "innamoramento" per un certo manoscritto avviene anche in questo ambito e chiude la sessione riconoscendo che tanto nella narrativa quanto nella saggistica vi è di fondo una sostanziale “inconoscibilità” che governa il mestiere dell’editore e, in ultima analisi, lo rende attraente.
Nella breve discussione che segue le relazioni, emerge una interessante differenza fra l’editore di dimensioni minori che in genere attribuisce molta importanza al progetto editoriale, e quello di dimensioni maggiori, che risolve l’eterogeneità al suo interno frammentando una missione comune all’intera azienda in diversi progetti editoriali, ciascuno relativo a una specifica collana o a un marchio editoriale fra i tanti, o viceversa lasciandosi guidare da criteri più oggettivi, attinenti al mercato e al suo andamento, che finiscono in tal caso per prevalere.
Una tavola rotonda di estremo interesse, nell’ambito di una manifestazione ricca di stimoli, benché, come lamentato in precedenza da chi vi scrive, affatto priva di spazio per il genere fantastico.
Speriamo nell'anno venturo.

giovedì 25 marzo 2010

Libri come...

Si aprirà fra poche ore. In pompa magna, una bella festa di primavera dedicata a quegli strani oggetti del desiderio detti libri. Impossibile non parlarne, per un blog che si interessa (anche) di letture.
Mi solletica l’idea di convertire un’affermazione in una domanda. Libri come?
Meno divertente la risposta.
Gialli. Noir. Sacri. Per bambini. Per cuori solitari. Sull’amore. Sulla guerra. Di e per italiani, di e per stranieri. Di arte e di paesaggi. Di cinema, di storia e di canto. Dalla psicologia alla ‘ndrangheta. Dalla filosofia alla fotografia. Ospiti autori, operatori, editori, commentatori. E poi, ancora, come si leggono, come si scrivono, come si editano, come si pubblicano, come si rilegano, come si voltano le pagine…
E…?
E la fantascienza?
Ma è possibile che all’interno di una manifestazione di simile portata (qui il programma) nel cuore del nuovo polo culturale ed espositivo romano nessun manager illuminato, nessun editore, nessuna associazione culturale, abbia pensato di stillare qualche goccia di fantastico in questa splendida e grande teiera dalle novecentonovantanove essenze floreali?
Se non fosse che non amo particolarmente il suo autore, citerei il celebre “Continuiamo così. Facciamoci del male.”

martedì 9 marzo 2010

Adamo ed Eva dell’Inferno.

Alle volte, il titolo dice tutto di un libro. Alle volte, non è necessario (può anzi essere fuorviante) aprire il volume e leggere la prima pagina della storia. Alle volte, bisognerebbe limitarsi a prendere atto della sensazione immediata che ti dà la copertina, e non cedere alla tentazione di cimentarsi a leggere qualcosa di “diverso” al prezzo di ignorare quella sensazione (al quale si sono aggiunti ben 15,00 €, troppi, per 160 pagine, fossero anche di buona qualità).
Questo libro (The Empty People, 1969, di K .M. O’ Donnell - ovvero lo pseudonimo di Barry Malzber - nato a New York nel 1939, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1974 nella collana “Galassia” con il titolo “Il grande incubo”) ha rappresentato per chi vi scrive una lettura piuttosto faticosa, non tanto per lo stile (esibizionista quanto basta) quanto per narrazione e registro. Ciononostante devo ammettere che il buon ritmo (l’unico pregio del romanzo) e la presenza di 160 sole pagine hanno consentito una lettura abbastanza spedita da affrontare in modo indolore l’ “infernale” storia.
Ma veniamo al punto. Non è infrequente che, omettendo elementi narrativi e giocando con una prosa narcisistica, un autore dissemini una storia di apparenti falle e contraddizioni, di vuoti, e di conversazioni astratte e prive di senso. Tutto può concorrere a creare suspance e a mantenere elevata l’attenzione. Purché alla fine (e, possibilmente, abbastanza prima della fine) le falle vengano colmate e le contraddizioni sanate. E le parole incomprensibili diventino improvvisamente chiare, cosicché il lettore arrivi a proclamare infine il raggiungimento, nell’ordine, di un meritato sollievo e di un agognato divertimento.
Quando invece il finale ti obbliga e metterci tanto, troppo, di tuo come lettore, a mio parere qualcosa nell’intreccio non ha funzionato. E quel che è peggio è essere consapevoli che l’autore ne è stato consapevole. In altre parole, obbligare il lettore a uno sforzo creativo che si aggiunga a quello dell’autore fino a compensarne i vuoti, in misura tale che il senso attribuito alla storia possa essere uno o il suo contrario, è una pretesa eccessiva. Una pretesa che denota una carenza creativa dell’autore o, peggio, la presunzione che l’efficacia e la bellezza della storia siano proporzionali alla sua complessità e alla sua incomprensibilità. Mi torna in mente Neuromante di William Gibson, romanzo completamente diverso da questo, ma anch’esso imperniato sull’equazione “lettore che non capisce = autore eccellente”, che ancora prima che come autore, rigetto con forza come lettore.
Rispetto, insomma. Ci vuole rispetto. Quando si scrive si deve pensare a chi legge. La scrittura è dialogo.
Tutto ciò può essere irritante persino in una storia solare, umana e piena di personaggi positivi. Ma supponete per un momento che invece ciò accada in una narrazione in cui i personaggi sono uomini e donne senza memoria, condannati a un futuro angosciante e ignobile, e poi un malato terminale nelle mani di un medico cinico e folle, e degli alieni onniscenti mostruosamente cattivi (prescindendo dai significati occulti attribuiti a queste figure, che francamente diventano secondari, ammesso di riuscire a coglierli). Riuscite a immaginare il risultato?
Del resto, la quarta di copertina di quest’edizione, che reca il commento entusiastico di Robert Silverberg e un paragone con P. K. Dick, non lasciavano dubbi sul carattere oscuro della storia in questione. Mi domando come questa predilezione quasi satanistica per l’oscurità, questa pretesa di inconoscibilità della realtà che ci circonda, tanto assoluta da mettere in dubbio la nostra stessa esistenza, e da attribuire all’allucinazione, al delirio, lo stesso grado di realtà dei sogni e della quotidianità, non sia ancora venuta a noia ai suoi cultori.
In un rigurgito d’onestà (che in realtà voleva essere un omaggio all’autore in forma di richiamo alla comunità letteraria di genere), l’aletta ci confessa che dopo questo romanzo “K. M. O’ Donnell è stato dimenticato”.
Mi chiedo se non sia un bene.