sabato 30 gennaio 2010

Terre di Confine: nasce l'Associazione Culturale.

Omonima della ormai celeberrima rivista online, nasce l'Associazione Culturale che consentirà di compiere ulteriori progressi nella tutela, nella promozione e nella diffusione della fantascienza e del fantastico in Italia, nei suoi sottogeneri e nelle sue declinazioni.


Al via le iscrizioni alla nostra nuova Associazione Culturale.
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Ecco le istruzioni per diventare membro
dell'Associazione Culturale Terre di Confine

Tutte le istruzioni per associarsi sono accessibili qui. Un'occasione da non perdere per chiunque abbia intenzione di offrire il proprio contributo in termini di recensioni, racconti, articoli, commenti e dibattiti.

lunedì 25 gennaio 2010

Una grande prova della fantascienza scandinava.

Declinare efficacemente in chiave umoristica una narrazione che rientra di diritto nella fantascienza dimostra almeno due cose: 1) che il genere non ha nulla da invidiare alla letteratura “mainstream”, tanto da poterne accogliere in pieno le varianti; 2) che l'autore di una simile operazione letteraria è una cellula totipotente, in perenne bilico fra direzioni di sviluppo opposte e imprevedibili, da cui potranno generarsi creazioni estremamente variegate. Questo è esattamente il caso de “Il manifesto dei cosmonisti” (trad. it. 2007, "Svålhålet", 2004, di Mikael Niemi, Svezia, classe 1957), classificato come romanzo, in realtà raccolta di racconti uniti da un filo conduttore intessuto da un io narrante che riferisce le sue esperienze di professionista viaggiatore del Cosmo.
Come per le pietanze più gustose e raffinate, il segreto, naturalmente, è nella ricetta.
In realtà è piuttosto semplice: prendete simili quantità di caos, universi paralleli, flusso del tempo, esplorazione spaziale, androidi, extraterrestri, tutto a crudo e senza lavare, mi raccomando (preserviamo i sapori che la natura ci regala), quindi mettete tutto nel frullatore. Dopo qualche minuto di miscelazione aggiungete secrezioni aliene, ironia della sorte e spirito d'avventura. Lasciate raffreddare e condite con chicchi di Legge di Murphy secondo il gusto. Servite accanto a gnocchi di Big Bang. Si consiglia infine di accompagnare il tutto con un buon bicchiere di ghiaccio di cometa in purezza.
Potrebbe essere questo il piatto del giorno alla “Buca della Cotica”, locale noto in ogni galassia che si rispetti e punto di ritrovo ambito dai Cosmonisti più affezionati.
Figlia legittima di queste righe, nasce ora la domanda “Ma chi diavolo sono i cosmonisti?”.
Complice il colossale truck interplanetario raffigurato nella copertina del volume edito da Iperborea (casa editrice specializzata nella letteratura di area scandinavo-neerlandese-baltica, e di cui abbiamo parlato qui), ce li immaginiamo subito come “camionisti dello spazio”, ma la lettura del libro rende il paragone piuttosto riduttivo; i Cosmonisti sono molto di più. A differenza dei primi, che prendono il nome dal loro mezzo di spostamento terrestre, i Cosmonisti sono gli individui nati per viaggiare nel cosmo. La loro identità non è nella nave su cui viaggiano, ma nel non-luogo in cui si recano per dare seguito a un'attrazione irresistibile. Perennemente in bilico fra vita e morte, fra lucidità e follia, i Cosmonisti giocano con il proprio destino al momento in cui arrivano al “Ponor” (Point of No Return) della loro nave, oltre il quale sono consapevolidi non avere abbastanza energia per fare ritorno sulla Terra. Una volta superato questo punto, c'è solo una speranza per i“Ponoristi”: imbattersi in una cometa, dissetarsi del suo ghiaccio e gettarsi a capofitto nell'esplorazione dello spazio esterno. Fino al Ponor successivo.
E' probabile che a questo punto stiate pensando che il Cosmonista-Ponorista è il classico reietto, un povero emarginato della Terra, che solo nella vuota immensità dello spazio ritrova se stesso, oppure un individuo che vuole dimenticare del tutto quel se stesso, rinnegare le proprie origini e vivere (o morire) in una condizione di libertà che la Terra non gli ha mai concesso.
Ma non è (solo) così.
Il Cosmonista parte avendo la Terra nel cuore, anzi nel Tascapane, il solo effetto personale permesso a bordo oltre agli strumenti per la navigazione e la sopravvivenza. Nel minuscolo volume del Tascapane il viaggiatore è autorizzato a condurre con sé il solo ricordo della Terra che gli sia consentito, così da poterne godere nei momenti di estrema solitudine; talora si tratta di semplici aromi che potrà assaporare una sola volta in tutto il viaggio (e in questo, beninteso, non ci si limita affatto alle essenze floreali - tentate di fissare bene a mente questa generosa avvertenza).
Il richiamo nostalgico alla Terra è presente sin dal capitolo introduttivo, in cui l'autore-viaggiatore si congeda dal Tornedal (luogo di ambientazione del suo precedente romanzo) con una sauna con cui consuma la sua ultima notte sul pianeta natio (la Scandinavia, verrebbe da dire, più che la Terra).
Ma, interrotte da parentesi utilizzate per interloquire direttamente con il lettore, e volte a distrarlo e disilluderlo, i viaggi spaziali dei Cosmonisti non sono le sole avventure che compongono questo fiume di creatività. Con un'ironia che ricorda (benché solo per brevi tratti) il britannico Jasper Fforde, Niemi ci fornisce una spiegazione scientifica ineccepibile per problemi quotidiani, come i Kurt, ossia le particelle che veicolano la legge di Murphy e rappresentano la spiegazione della sfortuna, o l'esistenza del Groviglio, un ammasso di conoscenza infinita che renderà già scritta da qualcuno qualunque cosa venga prodotta da un autore (un'applicazione decisamente affascinante della teoria degli universi infiniti), e dissacra alcuni luoghi narrativi cari alla fantascienza più blasonata, come con Rutvik, la realtà virtuale che consente a un gruppo di pazzi la scoperta dell'Eternità.
In un simile Universo, pieno di creature strambe, talora vomitevoli (seconda raccomandazione del recensore: gustare “La buca della Cotica” rigorosamente a stomaco vuoto), e nel quale i corpi stellari non hanno squisiti nomi arabi o altolocate sigle alfanumeriche di classificazione (basti pensare all'asteroide Segalzino), ci si perde con immenso piacere, si ride di cuore, e si contempla ammirati una fantasia di portata rara.
Il tutto sempre rammentando le sacre parole del Manifesto dei Cosmonisti:
“...1. Non esiste alcun manifesto dei Cosmonisti.
2. Non ci senti, testa di rapa? Non esiste alcun manifesto dei Cosmonisti.
3.Ma quante volte te lo devo ripetere? Non esiste alcun manifesto dei Cosmonisti.”

E poi, più in dettaglio, le auree regole non scritte vigenti a bordo dopo il lancio:

-Noi non abbiamo uniformi.
-Del tu a tutti.
-Stipendio parificato.

-Siamo tutti proprietari dell'astronave.
-Sesso libero.
-Non mugugnare.


Invitante, non pensate anche voi?

Da non perdere.
"Il manifesto dei cosmonisti” ("Svålhålet", 2004, di Mikhail Niemi - trad. it. 2007 Iperborea ISBN 978-88-7091-153-4)

domenica 17 gennaio 2010

Nati nello spazio?

Ho iniziato questo romanzo attratto dalla tensione evocativa di un titolo traditore. Tutto ciò che ruota intorno alla nascita non può che captare l’interesse, e se poi ad essa si associa lo spazio, be’, l’attenzione di un povero lettore di fantascienza viene titillata a dovere; se infine il lettore in questione è anche vittima facile di alette e quarte di copertina che spingono a rammentare la lettura di un capolavoro di Heinlein (“Universo”), si comprende il livello di investimento emotivo che ha generato la successiva delusione.
Nati nello spazio” (The Space Born, di Edwin C. Tubb, UK, 1919) è un romanzo scritto bene, non c’è che dire. Un buon giallo, sviluppato in maniera quasi asimoviana e con un piacevole ritmo. Il richiamo all’opera di Heinlein è evidente sin dalle prime pagine, e con esso un considerevole divario stilistico e qualitativo fra i due autori (a sfavore dell’inglese), non tale però da pregiudicare la validità del romanzo.
Come “Universo”, “Nati nello spazio” ripercorre l’affascinante idea dell’astronave in grado di ospitare decine di generazioni di donne e uomini che si succedono durante un viaggio plurisecolare verso un nuovo mondo. Dozzine di ponti a gravità decrescente, via via meno densamente popolati, sono un altro tratto comune fra i due romanzi, come pure l’esistenza, nelle parti più disabitate della nave, di una minoritaria fazione di reietti.
Ma a differenza di quanto avviene nel romanzo di Heinlein, la popolazione che abita la grande nave di Tubb non ha perso la memoria della propria missione, e non si illude affatto che il solo mondo conosciuto sia racchiuso in quella stessa astronave.
Da questo discende lo schiacciante spirito di morte che aleggia attraverso tutta la storia.
Per poter assolvere alla missione, è necessario garantire la massima efficienza possibile dell’equipaggio e della nave. Lo “spreco” è considerato una peste, tanto che a bordo la parola stessa è ormai diventata l’imprecazione per eccellenza. I sistemi di riciclaggio minimizzano la perdita di massa e di energia. I colpevoli di spreco sono condannati a morte e diventano essi stessi materia per i riciclatori. La procreazione è rigorosamente programmata attraverso matrimoni finalizzati alla selezione della prole, prima dei quali l’accoppiamento sessuale è proibito, in quanto di dubbia resa qualitativa.
Ma soprattutto, il solo essere umano ammissibile a bordo è quello che esprime il massimo rendimento. Ovvero, l’uomo giovane. Con la sola eccezione del comandante, leggi non scritte impongono che intorno ai quarant’anni tutti gli individui vengano eliminati. Di questo si occupa un piccolo corpo,la “psico-polizia”, formato da membri selezionati, che basa le sue azioni sulle decisioni inappellabili di "Psico", un calcolatore che stabilisce l'affidabilità psico-fisica di ogni singolo individuo. Le morti vengono sistematicamente mascherate da incidenti, e portate a termine con impeccabile efficienza. A bordo la vecchiaia è sconosciuta. E tutto perché i “Costruttori” (della nave, secoli prima) hanno voluto così.
Fin qui, nulla da eccepire. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per un mix appassionante.
Ciò che lascia perplessi è la totale asetticità dei personaggi di fronte a questo meccanismo. L’indistinta freddezza glaciale che muove le loro azioni elimina qualunque altro possibile registro narrativo. Fatta eccezione per la protagonista femminile, Susan (per lo più per via del fatto che si tratta dell’insopportabile stereotipo della donna made in USA anni ‘50), l’emozione dominante (per non dire la sola) è la paura. Jay West, il protagonista, psico-poliziotto, supera con disinvoltura estrema un conflitto interno di durata molto breve quando gli viene assegnato l’incarico di eliminare Fred, padre di Susan, che per inciso è la donna di cui è innamorato. La sola ragione per cui Jay rinuncia infine al compito, e prende invece a proteggere e nascondere Fred, è il sospetto che l’ordine gli sia stato impartito per motivi personali che vedono coinvolti lo stesso Fred e il capo della psico-polizia, Gregson.
Tutti sospettano di tutti, tutti sono pronti a uccidere tutti. Non c’è rimorso, non c’è esitazione, non ci sono dubbi. Non c’è umanità. Tutto avviene esclusivamente in funzione del criterio dell’utile e della sopravvivenza.
Più che dei “nati nello spazio”, questa sembra la storia degli “uccisi nello spazio”.
Provvidenzialmente, il clima pesante viene spazzato via da una svolta inattesa: d’un tratto, il Comandante, il solo a bordo con diritto di anzianità, annuncia che la meta del viaggio è stata raggiunta. La terra promessa. È dunque giunta l’ora di riportare alla coscienza quella parte di umanità che è stata trasportata in stato di ibernazione, sin dalla partenza dalla Terra. Eliminate le proibizioni al libero accoppiamento e la programmazione delle nascite, coloro che hanno viaggiato nella nave, succedendosi di generazione in generazione a bordo, potranno mescolarsi con i resuscitati. Non vi è più alcun bisogno di eseguire alcuna sentenza di morte per i quarantenni.
Il lettore, lo stesso di cui all'inizio (classe 1969), tira un sospiro di sollievo.
Si chiude il libro istintivamente riponendo le proprie ultime speranze negli ibernati, perché non ci si può non chiedere che razza d’umanità sarebbe stata altrimenti quella che dell’assassinio aveva fatto la sua regola di sopravvivenza.
Una storia impoverita.

sabato 9 gennaio 2010

Il Grande Tempo.

“Non avete mai avuto dubbi sulla vostra memoria, poiché vi pare che non vi dia, da un giorno all’altro, uno stesso e identico ritratto del passato? Non avete mai temuto che la vostra personalità stesse cambiando per opera di forze che sfuggono alla vostra conoscenza e al vostro controllo? Non avete mai avuto l’impressione che una morte improvvisa, inspiegabile, fosse in agguato? E non avete mai avuto paura dei Fantasmi… non mi riferisco a quelli descritti nei libri di favole, ma ai miliardi di esseri umani che un tempo erano così reali, così forti, che stentate a credere che si limitino a dormire per sempre, innocui? E non vi siete mai chiesti la natura di quegli esseri che potreste chiamare diavoli o Démoni: spiriti capaci di muoversi su tutta la distesa del tempo e dello spazio, di penetrare nel cuore incandescente delle stelle e nel gelido scheletro di spazio che separa tra loro le galassie?
Non avete mai pensato che l’intero universo non sia altro che un sogno folle e confusionario?
Ebbene, se lo avete fatto, avete avuto sentore dell’esistenza della Guerra del Cambio.”
Greta Forzane, intrattenitrice.

Prendete una ventinovenne di Chicago, un soldato dell’antica Roma, un ufficiale nazista proveniente da un Reich padrone del mondo, una cinquantenne del futuro ringiovanita con tecniche estetiche, una crocerossina della prima guerra mondiale morta due volte, un pianista del Mississippi di un’America senza guerra di secessione, un medico russo sempre ubriaco, un tenente inglese che è anche poeta, una matriarca dell’antica Creta, un lunare pluritentacolare di un miliardo di anni fa e infine un satiro venusiano di un miliardo di anni fra, e rinchiudeteli in una stanza al di fuori del flusso del tempo.
Una miscela così ardita decadrà in una psicosi delirante oppure, senza vie di mezzo, schiuderà la genesi di un capolavoro. Questo bivio da cui originano opposte direzioni è anche ciò che si pone al giudizio del lettore: un romanzo simile si ama o si odia. Chi scrive è entrato nel primo gruppo sin dalle pagine iniziali de “Il grande tempo” di Fritz Leiber (1910-1992), figlio di attori shakespeariani e appassionato cultore di teatro.
Realizzata infatti con stile chiaramente teatrale nella forma e nell’ambientazione, l’intera storia si svolge all’interno di una grande stanza (Il Locale) che serve per puro intrattenimento dei Soldati che combattono la guerra al servizio dei Ragni contro gli Scorpioni. Il Locale si trova al di fuori dal flusso del tempo, e il suo unico collegamento con esso è la Porta, che può apparire in posizioni diverse. Grazie allo strumento che ne governa il funzionamento (il Mantenitore) in caso di emergenza il Locale può introvertirsi, ovvero sopprimere ogni collegamento con il Tempo. Un atto equivalente a una fuga disperata o una diserzione.
Sia gli Intrattenitori che i Soldati sono defunti ai quali è stato proposto il reclutamento da parte dei Ragni. Dèmoni, a loro modo più fortunati degli Zombie (i vissuti nel passato) e dei Nascituri (i vissuti nel futuro). La Guerra del Cambio è combattuta da ciascuna delle due fazioni con lo scopo di volgere il flusso della storia a proprio favore. In conseguenza dell’affastellarsi dei mutamenti così indotti, il Vento del Cambio spira senza sosta, e finisce per influenzare l’esistenza pregressa e futura dei protagonisti, che possono così aver vissuto più di una vita, ed essere periti più di una volta e in diverse circostanze.
La tensione sale già nelle prime pagine: tre Soldati fanno il loro ingresso portandosi una valigetta contenente una bomba nucleare, e poco dopo il Locale viene misteriosamente introvertito. La bomba viene attivata dal nazista indispettito e pronto a tutto, Erich, per esortare il misterioso artefice di quella che considera una diserzione collettiva a ripristinare il collegamento con il tempo. Hanno così inizio i trenta minuti mancanti all’esplosione.
Ritmo serrato, stile e trama tanto semplici quanto trascinanti. Rapide e brevi pennellate abbozzano appena un mondo immaginario, il Grande Tempo, che il lettore coglie però nella sua interezza, come se venisse descritto in ogni dettaglio. I personaggi si amalgamano come tasselli di un mosaico, e si producono in dialoghi brillanti e quanto mai adatti ad un palcoscenico. La loro diversità diventa cemento per la narrazione e pretesto per efficaci spunti umoristici, come nel dialogo fra l’inglese shakespeariano di Sid e la parlata volgare dell’alieno di Venere, Sevensee, che “ha imparato la lingua da uno scaricatore di porto” e prorompe in battute che spezzano la tensione con la puntualità della miglior commedia. L’io narrante femminile, Greta, sempre pronta a usare la sua angoscia per sedurre, e a suo modo innamorata di Erich (sì, il nazista), addolcisce le asperità dei protagonisti, che loro malgrado giocano con la morte e con il destino proprio e di tutto il genere umano. Le esigenze di individui che sono stati e desiderano ancora essere umani irrompono in monologhi che costringono di continuo a cambiare il punto di vista sulla situazione, e la presenza di alieni dalle forme spaventose non disturba, anzi consolida la scena e la vivacizza.
Una vera commedia drammatica di genere fantascientifico, in senso stretto, in cui gli eccessi di romanticismo sono temperati da uno humor nero, sottile e ininterrotto.
Si può condurre una scena simile, in atto unico, per centinaia di pagine e senza annoiare, anzi, accelerando fino all’ultima riga? Questo romanzo, sebbene al prezzo di un finale che appare in effetti amputato, sembra esserne le prova.
Ma in realtà la questione non finisce qui.
Il libro (Editrice Nord 1975 - Cosmo serie Oro, altro fortunato acquisto presso il Salone del Libro Usato di Milano ) contiene anche un racconto, intitolato “Non è affatto un miracolo”, un vero omaggio al teatro e a chi vi ha dedicato la propria vita. Non mancate di leggerlo. Vi ritroverete piacevolmente confusi: all’inizio supporrete che l’autore abbia voluto svelare la vera fonte d'ispirazione dei personaggi della storia precedente, confessando e descrivendo la vita quotidiana e il mestiere dei bravi teatranti che l’hanno incarnata, talora invece sospetterete che il Grande Tempo stia continuando a scorrere fra quelle pagine, e che proprio come i Dèmoni suoi protagonisti, il romanzo possa vivere oltre la propria fine.
Ma non sarò certo io a rivelarVi quale sia la verità. Ammesso che la troviate.

lunedì 4 gennaio 2010

Rotta di collisione, di B. J. Bayley. La fine del tempo sulla terra?

Rotta di collisione”, del recentemente scomparso Barrington J. Bayley (1937-2008), è uno dei vecchi romanzi della serie Cosmo (1978, v.o. 1973) che mi strizzavano l’occhio dalle bancarelle in fiera durante il Salone del Libro Usato di Milano dello scorso dicembre.
Ancora una volta, a farla da padrone in questa storia è il Tempo.
In un futuro remoto, o forse alternativo, La Terra è dominata da una casta assimilabile ai nazisti, i Titani, propugnatori del culto ideologico del “Vero Uomo”, e artefici di una discriminazione razziale senza precedenti, che obbliga a reputare e classificare come sub-umani o non-umani tutti coloro che risultano non conformi ai canoni della razza. Che sia per motivi di mutazione genetica o di semplice appartenenza ad altre etnie, questi individui sono chiamati “Dev” (Devianti), e la loro unica speranza è rappresentata dalla Lega Panumana, una società clandestina di sovversivi che credono nell’uguaglianza fra tutti gli uomini.
In un simile clima, oggetto di controversia culturale e storica diviene pertanto il ritrovamento di siti archeologici di origine indubbiamente aliena, e risalenti a periodi storici che sarebbero stati caratterizzati dall’occupazione da parte di misteriosi extra-terrestri. Ad essi i Titani imputano la responsabilità di guerre e massacri avvenuti nel passato, e da cui sarebbero scaturite le razze Dev. Su possibili nuove invasioni aliene, oltre che sul culto del Vero Uomo a discapito delle razze sub-umane, si basa quindi una enfatica propaganda dei Titani, che esaltano il mito della “Terra e del Sangue”, e dell’appartenenza di diritto della Terra ai soli “ Veri Uomini”.
Il dibattito storico raggiunge il suo apice in conseguenza della clamorosa scoperta che le fotografie dei siti archeologici del passato mostrano gli stessi resti e i manufatti alieni in condizioni peggiori che nel tempo presente. A ciò si aggiunge la scoperta che gli alieni sono in grado di viaggiare nel tempo. Come conseguenza di ciò, i timori dei Titani aumentano. Attraverso una spedizione diretta trecento anni nel passato a bordo di un “trasporto temporale” costruito sul modello di un simile mezzo sottratto agli alieni stessi, il protagonista, l’archeologo Rond Heshke, ottiene la conferma che in effetti i manufatti alieni mostrano un’evoluzione temporale invertita rispetto a quella umana: con lo scorrere del tempo, essi diventano più “nuovi”, ringiovaniscono.
Emerge così l’amara verità: gli alieni sono in realtà dei terrestri che vivono nel futuro, e il cui tempo scorre in senso inverso a quello degli esseri umani. Ciò che per i Titani è il futuro, per gli alieni è il passato, e viceversa. Le due onde temporali procedono l’una contro l’altra seguendo una sicura rotta di collisione a quattrocento anni di distanza reciproca, e lo scontro catastrofico finale è dunque previsto entro duecento anni. La conseguenza: l’annichilazione del Tempo e la fine della vita sul pianeta. Si profila così una guerra fra i Titani e gli alieni (che altro non sono in realtà che terrestri non umani), condotta lungo la linea temporale comune alle due civiltà. Le sole speranze di salvezza risiedono in una misteriosa città stellare abitata da una razza Dev straordinariamente evoluta (che con profetica intuizione corrisponde ai cinesi).
In una breve post-fazione, l’autore precisa di essersi ispirato alle teorie sul tempo di John William Dunne (pioniere dell’aviazione e filosofo, 1875-1949). La interessante peculiarità della descrizione del Tempo fornita in questa storia è rappresentata dalla sua relatività estrema, ovvero, potremmo dire, spaziale. In sostanza, l’intero universo giace in una condizione di staticità, ovvero di non-tempo. In una simile matrice, la nascita di specifiche zone caratterizzate dallo svolgersi di un flusso temporale avviene eccezionalmente e localmente, ed è sempre associata alla presenza di vita senziente. Sulla terra in particolare si è verificata, in maniera del tutto casuale, una circostanza ancor più singolare: la nascita di due flussi di tempo che scorrono in direzione eguale e contraria, ovvero accomunati da una stessa linea di sviluppo, ma aventi senso vettoriale opposto. Nella storia narrata, in effetti, le due civiltà presenti sulla Terra corrispondono ciascuna ad un’ ”onda temporale”, con un fronte del presente che si sposta lungo una sola retta. Il passato ed il futuro relativi di ciascuna “onda” sono statici, ovvero privi di vita, nel senso che il passato perde la coscienza del tempo dopo il passaggio dell’onda (quando cioè in ogni istante il presente diventa passato) e il futuro la acquista al suo arrivo (quando cioè ogni istante futuro diventa presente). Vi sono quindi due linee del Presente (quella umana e quella aliena) che si spostano l’una verso l’altra, e che perciò tendono ad annichilirsi reciprocamente ripristinando anche sulla Terra la generale staticità (non-vita) dell’intero universo.
E’ certamente stimolante l’idea dell’associazione tempo-vita. Solo in presenza di vita intelligente infatti, si può parlare di percezione e coscienza del tempo. In un passaggio del romanzo viene però precisato che non è la presenza di vita a causare il tempo, come sarebbe intuitivo supporre, ma l’esatto opposto: l’onda vitale di coscienza nasce in conseguenza dell’onda temporale (per questa ragione tanto la strategia dei Titani di bombardare il futuro con l’atomica, quanto quella degli alieni di disseminare malattie nel passato umano, si preannunciano fallimentari – lo scontro letale fra le due onde avverrà comunque). Ed è così che alla suggestiva ipotesi del tempo come creazione dell’intelligenza si sostituisce un vago senso di predeterminazione: non è l’essere umano (o comunque intelligente) a “inventare” il tempo, ma il tempo fa scaturire la vita dotata di intelligenza.
Un’intelligenza definita comunque prevalentemente come “coscienza”, con riferimenti solo vaghi e accennati all'influenza dell’inconscio sulla sensazione dello scorrere del tempo: benché il viaggio nel passato statico (nel quale è impossibile modificare gli eventi già accaduti, o persino interagire con i suoi “abitanti”, che ripercorrono come una traccia già svolta gli eventi accaduti) o nel futuro ancora desertico (che attende il passaggio dell’onda temporale che vi porterà abitanti vivi e coscienti) abbiano un sapore, a tratti esplicitamente descritto, di fenomeno metafisico, ibrido fra lo spostamento materiale e il percorso inconscio, su tutto ciò prevale un automatismo che lascia poco spazio alla creatività e al cambiamento. Il che non stupisce, se si osserva che le speculazioni di J. W. Dunne sul tempo nacquero da una presunta esperienza personale di premonizione in sogno di un evento che poi accadde realmente (l'eruzione del monte Pelée, nella Martinica, nel 1902); secondo Dunne (ma a questo livello di dettaglio Bayley nel romanzo in questione non arriva) la vita cosciente è limitata dunque alla percezione del presente (l’onda temporale), mentre a livello inconscio sarebbe possibile visualizzare passato, presente e futuro come un unicum (ricordate il protagonista di Vagabondo delle Stelle di Jack London?). Prospettiva interessante, se non fosse per il fatto che riduce la portata del sogno (o meglio dell’inconscio che essi rappresentano) ad una specie di super-coscienza, una sorta di percezione ultra-potenziata, privata cioè dei limiti della coscienza vigile, ma anche del tutto priva di creatività; prospettiva, inoltre, che relega alla sola coscienza la capacità di modificare il presente.
Lo stile (stando almeno alla traduzione di G. Cossato e S. Sandrelli) è quello piuttosto datato che ricorda a tratti un Heinlein d’annata, e contribuisce a rendere efficacemente le atmosfere della FS degli anni settanta, con caratterizzazioni ambientali che fanno talora sorridere ma inducono una romantica nostalgia.
Nostalgia… di un tempo che forse abbiamo visto in sogno?