domenica 17 gennaio 2010

Nati nello spazio?

Ho iniziato questo romanzo attratto dalla tensione evocativa di un titolo traditore. Tutto ciò che ruota intorno alla nascita non può che captare l’interesse, e se poi ad essa si associa lo spazio, be’, l’attenzione di un povero lettore di fantascienza viene titillata a dovere; se infine il lettore in questione è anche vittima facile di alette e quarte di copertina che spingono a rammentare la lettura di un capolavoro di Heinlein (“Universo”), si comprende il livello di investimento emotivo che ha generato la successiva delusione.
Nati nello spazio” (The Space Born, di Edwin C. Tubb, UK, 1919) è un romanzo scritto bene, non c’è che dire. Un buon giallo, sviluppato in maniera quasi asimoviana e con un piacevole ritmo. Il richiamo all’opera di Heinlein è evidente sin dalle prime pagine, e con esso un considerevole divario stilistico e qualitativo fra i due autori (a sfavore dell’inglese), non tale però da pregiudicare la validità del romanzo.
Come “Universo”, “Nati nello spazio” ripercorre l’affascinante idea dell’astronave in grado di ospitare decine di generazioni di donne e uomini che si succedono durante un viaggio plurisecolare verso un nuovo mondo. Dozzine di ponti a gravità decrescente, via via meno densamente popolati, sono un altro tratto comune fra i due romanzi, come pure l’esistenza, nelle parti più disabitate della nave, di una minoritaria fazione di reietti.
Ma a differenza di quanto avviene nel romanzo di Heinlein, la popolazione che abita la grande nave di Tubb non ha perso la memoria della propria missione, e non si illude affatto che il solo mondo conosciuto sia racchiuso in quella stessa astronave.
Da questo discende lo schiacciante spirito di morte che aleggia attraverso tutta la storia.
Per poter assolvere alla missione, è necessario garantire la massima efficienza possibile dell’equipaggio e della nave. Lo “spreco” è considerato una peste, tanto che a bordo la parola stessa è ormai diventata l’imprecazione per eccellenza. I sistemi di riciclaggio minimizzano la perdita di massa e di energia. I colpevoli di spreco sono condannati a morte e diventano essi stessi materia per i riciclatori. La procreazione è rigorosamente programmata attraverso matrimoni finalizzati alla selezione della prole, prima dei quali l’accoppiamento sessuale è proibito, in quanto di dubbia resa qualitativa.
Ma soprattutto, il solo essere umano ammissibile a bordo è quello che esprime il massimo rendimento. Ovvero, l’uomo giovane. Con la sola eccezione del comandante, leggi non scritte impongono che intorno ai quarant’anni tutti gli individui vengano eliminati. Di questo si occupa un piccolo corpo,la “psico-polizia”, formato da membri selezionati, che basa le sue azioni sulle decisioni inappellabili di "Psico", un calcolatore che stabilisce l'affidabilità psico-fisica di ogni singolo individuo. Le morti vengono sistematicamente mascherate da incidenti, e portate a termine con impeccabile efficienza. A bordo la vecchiaia è sconosciuta. E tutto perché i “Costruttori” (della nave, secoli prima) hanno voluto così.
Fin qui, nulla da eccepire. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per un mix appassionante.
Ciò che lascia perplessi è la totale asetticità dei personaggi di fronte a questo meccanismo. L’indistinta freddezza glaciale che muove le loro azioni elimina qualunque altro possibile registro narrativo. Fatta eccezione per la protagonista femminile, Susan (per lo più per via del fatto che si tratta dell’insopportabile stereotipo della donna made in USA anni ‘50), l’emozione dominante (per non dire la sola) è la paura. Jay West, il protagonista, psico-poliziotto, supera con disinvoltura estrema un conflitto interno di durata molto breve quando gli viene assegnato l’incarico di eliminare Fred, padre di Susan, che per inciso è la donna di cui è innamorato. La sola ragione per cui Jay rinuncia infine al compito, e prende invece a proteggere e nascondere Fred, è il sospetto che l’ordine gli sia stato impartito per motivi personali che vedono coinvolti lo stesso Fred e il capo della psico-polizia, Gregson.
Tutti sospettano di tutti, tutti sono pronti a uccidere tutti. Non c’è rimorso, non c’è esitazione, non ci sono dubbi. Non c’è umanità. Tutto avviene esclusivamente in funzione del criterio dell’utile e della sopravvivenza.
Più che dei “nati nello spazio”, questa sembra la storia degli “uccisi nello spazio”.
Provvidenzialmente, il clima pesante viene spazzato via da una svolta inattesa: d’un tratto, il Comandante, il solo a bordo con diritto di anzianità, annuncia che la meta del viaggio è stata raggiunta. La terra promessa. È dunque giunta l’ora di riportare alla coscienza quella parte di umanità che è stata trasportata in stato di ibernazione, sin dalla partenza dalla Terra. Eliminate le proibizioni al libero accoppiamento e la programmazione delle nascite, coloro che hanno viaggiato nella nave, succedendosi di generazione in generazione a bordo, potranno mescolarsi con i resuscitati. Non vi è più alcun bisogno di eseguire alcuna sentenza di morte per i quarantenni.
Il lettore, lo stesso di cui all'inizio (classe 1969), tira un sospiro di sollievo.
Si chiude il libro istintivamente riponendo le proprie ultime speranze negli ibernati, perché non ci si può non chiedere che razza d’umanità sarebbe stata altrimenti quella che dell’assassinio aveva fatto la sua regola di sopravvivenza.
Una storia impoverita.

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