martedì 27 aprile 2010

L'occhio dell'airone.

Alla nostra precedente rassegna (qui) della produzione di Ursula K. Le Guin, al di fuori del genere per cui è attualmente più riverita, il fantasy, va aggiunto questo breve romanzo del 1975.
Pubblicato all’apice dell’ oscuro periodo storico che seguì i movimenti del 1968, L’Occhio dell’Airone è una storia tutto sommato semplice, nella quale l’autrice rappresenta lo scontro culturale e sociale innescato dall’emergenza della cultura della “non violenza”.
Su un lontano pianeta terraformato, ma ancora incolto e selvaggio, tanto che la protagonista vorrebbe ribattezzarlo “fango”, convivono faticosamente due comunità giunte dalla Terra in epoche diverse: i pionieri, originari del Brasile, avvezzi ad uno stile di vita organizzato socialmente su un modello proto-industriale di stampo “occidentale”, ed una successiva ondata coloniale di reietti, di origine australiana, dediti all’agricoltura, e decisi a sottrarsi all’arroganza e al potere dei primi, ricorrendo a strategie di lotta non violenta di gandhiana memoria. Sullo sfondo del conflitto sociale e culturale si muove l’inquieta protagonista, figlia di uno dei capi della comunità dei pionieri e preda di dubbi che alimentano instancabili riflessioni che accompagnano lo svolgersi dei fatti.
Sebbene si sia indotti a simpatizzare per il gruppo dei deboli, l’autrice rimane lungi dal prendere una posizione morale netta per l’una o l’altra fazione, nel consueto tentativo di svolgere un’analisi obiettiva ed equilibrata.
Con il risultato, altrettanto consueto, di non giungere ad alcuna soluzione. Proprio come ne “I reietti dell’altro pianeta”, UKL esprime in chiave fantascientifica le difficoltà, gli asperrimi scontri culturali del suo tempo, per ritrovarsi costretta ad affrontare l’inadeguatezza delle ideologie e la mancanza di certezze, e ancora una volta a risolvere la storia con la proposizione di atti di individualismo estremo, che lascia i contendenti del conflitto arroccati ciascuno sulle proprie posizioni di partenza, con un discreto stuolo di morti sul campo di battaglia.
Non vi pare un’ottima fotografia di quei tempi? In realtà, per certi versi, lo è anche di quelli attuali: uno scontro sterile fra sistemi di non-pensiero, che grossolanamente possiamo ridurre a 1) il sistema cosiddetto "occidentale" basato sul criterio del possesso e dello scambio e dunque sulla falsa definizione dell’identità in funzione della proprietà e del commercio 2) qualunque sistema antagonista che si ribelli ad esso, solitamente con esito fallimentare.
La non-violenza sembra rivelarsi uno di questi antagonismi inefficaci. Nel romanzo come nella storia. Perché la non-violenza non funziona? Perché un atteggiamento giustamente basato sul rifiuto del ricorso alle armi, alla forza, alla sopraffazione, alla coercizione, finisce inevitabilmente per essere “debole” o, se ciò non avviene, per disgregarsi in tante (troppe) particelle facilmente controllabili dalla controparte?
Forse la chiave è nella definizione stessa di questo principio.
“Non-violenza” è a ben vedere una "non-parola".
Una definizione basata sulla negazione di qualcosa di altro dall’oggetto (la violenza), ma priva di un proprio contenuto assoluto, che prescinda dalla necessità di citare il suo opposto per avere un significato. Un po’ come definire un colore non come “rosso” o “giallo”, ma come “non-blu” o “non-verde”.
Così descritta, la non-violenza rimane un puro imperativo della ragione. Non dunque una scelta aprioristica, “istintiva” (termine improprio per l’essere umano, ma grossolanamente efficace), spontanea, ma una negazione imposta sulla base di un criterio di opportunità. Un obbligo morale. Un divieto. Un’etichetta. Il frutto insomma di una decisione presa a tavolino. Una strategia, che dovrebbe essere efficace, ma che sovente finisce per non esserlo, proprio in quanto priva di un suo sostegno interno, di un assunto teorico di base che faccia della modalità pacifica di interazione fra esseri umani non la conseguenza obbligata del bando della violenza, ma una inclinazione naturale, che precede la scoperta stessa della violenza e che da essa prescinde.
Non vi è dubbio che l’opposizione alla violenza agita dagli altri sia indispensabile. Sempre e comunque.
Ma l’efficacia di una simile disposizione d’animo sarà relativa ed effimera sino al momento in cui si tratti esclusivamente di una non-belligeranza derivante da una regola morale, che è legge (auto)imposta e non attitudine intrinseca, tendenza innata, azione spontanea.
Diverso sarebbe se sin dal principio (leggi: sin dalla nascita del singolo essere umano / sin dalla nascita delle aggregazioni fra più esseri umani) si riconoscesse il valore fondante dell’idea che l’essere umano è per sua natura “sociale”, ovvero (andando oltre il pensiero Marxista che limitava questa affermazione al comportamento esteriore e alla sfera razionale), che l’essere umano è (o dovrebbe, idealmente, essere) per sua stessa natura portato alla condivisione, allo scambio interiore, al ricorso continuo alle facoltà non esclusivamente legate alla razionalità, al fine di creare relazioni interumane valide. Relazioni cioè non semplicemente basate sulla “convenienza” dell’assetto sociale per ovvii motivi pratici o economici, ma su tutto ciò che va oltre i semplici “bisogni” materiali.
In una parola, l’esigenza di essere in autentico rapporto gli uni con gli altri.
A un essere umano siffatto, e a una comunità di individui che si trovasse in simili condizioni, non si avrebbe alcun bisogno di insegnare il rifiuto della violenza, perché mai l’avrebbe conosciuta. Solo in tali condizioni la non-violenza si spoglierebbe dell’astrattezza della sua definizione negativa, e diventerebbe un “contenuto” assoluto. Un colore con identità propria, e non un “non-altro-colore”. Un’identità primordiale (tanto nella vita dell’individuo quanto nell’evoluzione dei modelli sociali e culturali delle aggregazioni di individui) sana, e non soltanto un riduttivo, opportunistico e utilitaristico ricorso alla proibizione della violenza. Un essere, e non un “non-essere-altro”. Un atto creativo "autosufficiente" alla propria esistenza.
Questo è a nostro parere il senso più profondo della parola “utopia” che la fantascienza goffamente tenta di esprimere. Se dentro l’assetto libertario tipico della società ideale non c’è un’identità fondante, un pensiero che non sia solo rifiuto astratto di ciò che non è valido, l’utopia è destinata a rimanere tale. Non a caso, la parola stessa, “utopia”, sembra infatti nata nel segno di una condanna all’immutabilità, all’impossibilità di trasformazione dell’esistente. Il non luogo per antonomasia.
L’Occhio dell’Airone non si sottrae al dramma di questo stallo, e la vicenda narrata non può che risolversi con la fuga di alcuni esuli non violenti che il lettore immagina riusciranno nell’impresa di fondare una nuova colonia sulle coste del Nord. Una scelta estrema, drammatica, ma anche la più sana e coerente, che ai ribelli restituisce una dignità attesa sin dal principio.
Il volumetto edito da Eleuthera (che alla luce dei numerosi refusi avrebbe certamente tratto beneficio da una maggior cura editoriale) contiene inoltre, forse non a caso, il racconto “Il giorno prima della rivoluzione”, ovvero la storia della vecchiaia di Odo, l’eroina ribelle che nel romanzo “I reietti dell’altro pianeta” è celebrata come la teorica della rivoluzione di Anarres, il mondo dell’utopia anarchica ed equalitaria. Un racconto dai toni freddi, triste e avvilente, nel quale sembra che UKL avesse già ben compreso sin dal 1977 (anno in cui fu scritto) che la “rivoluzione” (il 1968, fuor di metafora) era miseramente fallita. Che non basta proclamare la libertà, la mancanza di regole coercitive, per saperla vivere con dignità di esseri umani. Non basta essere non violenti per essere umani.
E non basta cambiare i comportamenti per creare “l’uomo nuovo”.
La storia ce lo ha insegnato, la fantascienza ce lo rammenta.

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