Alle volte, il titolo dice tutto di un libro. Alle volte, non è necessario (può anzi essere fuorviante) aprire il volume e leggere la prima pagina della storia. Alle volte, bisognerebbe limitarsi a prendere atto della sensazione immediata che ti dà la copertina, e non cedere alla tentazione di cimentarsi a leggere qualcosa di “diverso” al prezzo di ignorare quella sensazione (al quale si sono aggiunti ben 15,00 €, troppi, per 160 pagine, fossero anche di buona qualità).
Questo libro (The Empty People, 1969, di K .M. O’ Donnell - ovvero lo pseudonimo di Barry Malzber - nato a New York nel 1939, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1974 nella collana “Galassia” con il titolo “Il grande incubo”) ha rappresentato per chi vi scrive una lettura piuttosto faticosa, non tanto per lo stile (esibizionista quanto basta) quanto per narrazione e registro. Ciononostante devo ammettere che il buon ritmo (l’unico pregio del romanzo) e la presenza di 160 sole pagine hanno consentito una lettura abbastanza spedita da affrontare in modo indolore l’ “infernale” storia.
Ma veniamo al punto. Non è infrequente che, omettendo elementi narrativi e giocando con una prosa narcisistica, un autore dissemini una storia di apparenti falle e contraddizioni, di vuoti, e di conversazioni astratte e prive di senso. Tutto può concorrere a creare suspance e a mantenere elevata l’attenzione. Purché alla fine (e, possibilmente, abbastanza prima della fine) le falle vengano colmate e le contraddizioni sanate. E le parole incomprensibili diventino improvvisamente chiare, cosicché il lettore arrivi a proclamare infine il raggiungimento, nell’ordine, di un meritato sollievo e di un agognato divertimento.
Quando invece il finale ti obbliga e metterci tanto, troppo, di tuo come lettore, a mio parere qualcosa nell’intreccio non ha funzionato. E quel che è peggio è essere consapevoli che l’autore ne è stato consapevole. In altre parole, obbligare il lettore a uno sforzo creativo che si aggiunga a quello dell’autore fino a compensarne i vuoti, in misura tale che il senso attribuito alla storia possa essere uno o il suo contrario, è una pretesa eccessiva. Una pretesa che denota una carenza creativa dell’autore o, peggio, la presunzione che l’efficacia e la bellezza della storia siano proporzionali alla sua complessità e alla sua incomprensibilità. Mi torna in mente Neuromante di William Gibson, romanzo completamente diverso da questo, ma anch’esso imperniato sull’equazione “lettore che non capisce = autore eccellente”, che ancora prima che come autore, rigetto con forza come lettore.
Rispetto, insomma. Ci vuole rispetto. Quando si scrive si deve pensare a chi legge. La scrittura è dialogo.
Tutto ciò può essere irritante persino in una storia solare, umana e piena di personaggi positivi. Ma supponete per un momento che invece ciò accada in una narrazione in cui i personaggi sono uomini e donne senza memoria, condannati a un futuro angosciante e ignobile, e poi un malato terminale nelle mani di un medico cinico e folle, e degli alieni onniscenti mostruosamente cattivi (prescindendo dai significati occulti attribuiti a queste figure, che francamente diventano secondari, ammesso di riuscire a coglierli). Riuscite a immaginare il risultato?
Del resto, la quarta di copertina di quest’edizione, che reca il commento entusiastico di Robert Silverberg e un paragone con P. K. Dick, non lasciavano dubbi sul carattere oscuro della storia in questione. Mi domando come questa predilezione quasi satanistica per l’oscurità, questa pretesa di inconoscibilità della realtà che ci circonda, tanto assoluta da mettere in dubbio la nostra stessa esistenza, e da attribuire all’allucinazione, al delirio, lo stesso grado di realtà dei sogni e della quotidianità, non sia ancora venuta a noia ai suoi cultori.
In un rigurgito d’onestà (che in realtà voleva essere un omaggio all’autore in forma di richiamo alla comunità letteraria di genere), l’aletta ci confessa che dopo questo romanzo “K. M. O’ Donnell è stato dimenticato”.
Mi chiedo se non sia un bene.
Questo libro (The Empty People, 1969, di K .M. O’ Donnell - ovvero lo pseudonimo di Barry Malzber - nato a New York nel 1939, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1974 nella collana “Galassia” con il titolo “Il grande incubo”) ha rappresentato per chi vi scrive una lettura piuttosto faticosa, non tanto per lo stile (esibizionista quanto basta) quanto per narrazione e registro. Ciononostante devo ammettere che il buon ritmo (l’unico pregio del romanzo) e la presenza di 160 sole pagine hanno consentito una lettura abbastanza spedita da affrontare in modo indolore l’ “infernale” storia.
Ma veniamo al punto. Non è infrequente che, omettendo elementi narrativi e giocando con una prosa narcisistica, un autore dissemini una storia di apparenti falle e contraddizioni, di vuoti, e di conversazioni astratte e prive di senso. Tutto può concorrere a creare suspance e a mantenere elevata l’attenzione. Purché alla fine (e, possibilmente, abbastanza prima della fine) le falle vengano colmate e le contraddizioni sanate. E le parole incomprensibili diventino improvvisamente chiare, cosicché il lettore arrivi a proclamare infine il raggiungimento, nell’ordine, di un meritato sollievo e di un agognato divertimento.
Quando invece il finale ti obbliga e metterci tanto, troppo, di tuo come lettore, a mio parere qualcosa nell’intreccio non ha funzionato. E quel che è peggio è essere consapevoli che l’autore ne è stato consapevole. In altre parole, obbligare il lettore a uno sforzo creativo che si aggiunga a quello dell’autore fino a compensarne i vuoti, in misura tale che il senso attribuito alla storia possa essere uno o il suo contrario, è una pretesa eccessiva. Una pretesa che denota una carenza creativa dell’autore o, peggio, la presunzione che l’efficacia e la bellezza della storia siano proporzionali alla sua complessità e alla sua incomprensibilità. Mi torna in mente Neuromante di William Gibson, romanzo completamente diverso da questo, ma anch’esso imperniato sull’equazione “lettore che non capisce = autore eccellente”, che ancora prima che come autore, rigetto con forza come lettore.
Rispetto, insomma. Ci vuole rispetto. Quando si scrive si deve pensare a chi legge. La scrittura è dialogo.
Tutto ciò può essere irritante persino in una storia solare, umana e piena di personaggi positivi. Ma supponete per un momento che invece ciò accada in una narrazione in cui i personaggi sono uomini e donne senza memoria, condannati a un futuro angosciante e ignobile, e poi un malato terminale nelle mani di un medico cinico e folle, e degli alieni onniscenti mostruosamente cattivi (prescindendo dai significati occulti attribuiti a queste figure, che francamente diventano secondari, ammesso di riuscire a coglierli). Riuscite a immaginare il risultato?
Del resto, la quarta di copertina di quest’edizione, che reca il commento entusiastico di Robert Silverberg e un paragone con P. K. Dick, non lasciavano dubbi sul carattere oscuro della storia in questione. Mi domando come questa predilezione quasi satanistica per l’oscurità, questa pretesa di inconoscibilità della realtà che ci circonda, tanto assoluta da mettere in dubbio la nostra stessa esistenza, e da attribuire all’allucinazione, al delirio, lo stesso grado di realtà dei sogni e della quotidianità, non sia ancora venuta a noia ai suoi cultori.
In un rigurgito d’onestà (che in realtà voleva essere un omaggio all’autore in forma di richiamo alla comunità letteraria di genere), l’aletta ci confessa che dopo questo romanzo “K. M. O’ Donnell è stato dimenticato”.
Mi chiedo se non sia un bene.
Nessun commento:
Posta un commento