L’ultimo romanzo di Avoledo scorre in fretta. Questo è almeno quanto è accaduto a chi vi scrive. Nonostante. Nonostante il post-apocalittico non sia il mio genere preferito e nonostante la commistione, che pure non amo, fra fantascienza ed elementi (soft?) horror, con abbondanti manciate di misticismo cristiano e "neopagano". E nonostante passaggi che non esito a definire raccapriccianti. Per farla breve, quattrocentotrenta pagine di una narrativa posizionata decisamente al di fuori dell’ambito di mio gusto sono volate via nel giro di un paio di serate. Non saprei dare una spiegazione alla misteriosa dinamica che mi ha fatto tremare, sussultare e tifare come un forsennato per il destino di un prete nel dopo-bomba (e chi mi conosce sa cosa significa), se non attribuendone l'imperdonabile colpa all’eccellente capacità narrativa. Anche perché, nelle prime pagine, il mio pensiero è andato subito all'esecrabile Codice Genesi, dimenticabilissima pellicola che vedeva Denzel Washington nei panni di un predicatore in un mondo devastato dalla guerra nucleare. Con quel film, per fortuna, questo romanzo non ha nulla a che spartire.
Partiamo dalla storia. Le tinte sono forti, per non dire orribilmente e sanguinosamente drammatiche. Avoledo non ha alcun pudore nel descrivere le nefandezze commesse da buona parte dei protagonisti sullo sfondo di uno dei peggiori incubi post-apocalittici di sempre, per di più osservato non nell’immediato dopo-bomba, bensì a una distanza di vent’anni dalla catastrofe nucleare. In un periodo, quindi, in cui l’inverno post-atomico e i mostri che lo abitano hanno raggiunto una terribile e allarmante stabilità, che però agli occhi dei superstiti, che conoscono soltanto l’angolo di mondo in cui sono rintanati, non si traduce affatto in una conoscenza delle insidie ambientali, e che anzi sembra non porre limiti alla manifestazione dell’ignoto in ogni sua forma immaginabile e non.
Nell’ambito del Progetto “Metro 2033” di Dmitry Glukhovski, una specie di mega-romanzo web-born che sconfina nel videogioco (non a caso edito in Italia da Multiplayer, cui vanno i complimenti per aver fiutato e sviluppato da noi un progetto editoriale così interessante), e al quale stanno partecipando autori di tutto il mondo, “Le radici del cielo” rappresenta il punto di vista italiano sulla Terra post-apocalittica del 2033. Più precisamente, l’azione ha il suo incipit a Roma, nelle cui viscere (le catacombe di San Callisto) si annida una comunità di superstiti che vive in condizioni animalesche e che accoglie in sé una residuale e temibile autorità laica, ovvero il Consiglio del Comune (formato da tre famiglie di autentici criminali che sembrano la versione post-nucleare della Banda della Magliana, con tanto di sepoltura aristocratico-cristiana promessa ad uno dei suoi massimi esponenti) e una religiosa, ovvero il Nuovo Vaticano, formato dai pochi prelati raccolti intorno al cardinale Albani, sopravvissuto alla catastrofe. L’ultimo pontefice, un tedesco, è deceduto in circostanze descritte con cinico e gustoso umorismo, che non vi anticipiamo.
Il protagonista, un buono per antonomasia, è padre John Daniels, statunitense, che viene incaricato da Albani di recarsi a Venezia con lo scopo di mettersi in contatto con il Patriarca della città, che si mormora sia anch’egli sopravvissuto. A tal fine, Daniels viene nominato capo (nonché membro unico) della Congregazione per la Dottrina per la fede, ovvero la Santa Inquisizione. Il ricongiungimento con il Patriarca permetterà di indire un conclave ed eleggere il nuovo papa. Ciò che resta della chiesa romana intende infatti prepararsi per proseguire il ruolo che la storia le ha riservato per più di due millenni: la guida del mondo. Per svolgere il lunghissimo viaggio che si snoderà per l’EUR, la stazione metro Aurelia, e poi verso nord attraverso le vie abbandonate e innevate delle città di Torrita Tiberina, Urbino, Rimini e infine Venezia, padre Daniels godrà della protezione di un drappello scelto di sette Guardie Svizzere, agli ordini dell’ambiguo Capitano Durand. Ben lungi dal ricordare i folkloristici e sgargianti hellebardier della cancellata di frontiera in Via Ottaviano, gli armigeri del nuovo Vaticano sembrano prelevati direttamente da una divisione di US Marine sul set di Apocalypse Now. Il viaggio sarà un inferno, nel percorrere il quale padre Daniels vedrà la sua fede, già provata dalla catastrofe nucleare, messa di fronte a prove sempre più ardue.
Questo romanzo è pieno di trovate appassionanti, che arrivano a rendere digeribile e persino desiderabile la sua inenarrabile cupezza. La descrizione degli ambienti è raggelante e perfetta: non si fatica a visualizzare interamente lo scenario che viene tratteggiato, il suo ubiquitario grigio, la sporcizia perenne della neve come delle persone, il fetore che tutto e tutti pervade, al punto tale che i booktrailer accessibili in rete risultano in ultima analisi inadeguati a paragone con le nitide immagini che si creano nella lettura; se da un lato ci si sarebbe aspettato forse qualcosa di più nella descrizione delle rovine della Roma del 2033, basti qui sottolineare l’innegabile fascino della visione (onirica? Non possiamo svelarlo) della festa delle maschere veneziane sul Canal Grande in secca.
Usando una narrazione in prima persona e al presente, che non lascia il tempo di respirare, Avoledo decide di utilizzare come protagonisti del suo mondo post-atomico i personaggi della sparuta e farsesca Chiesa Cattolica del futuro. Il protagonista è un prete, i comprimari sono neopagani (e un musulmano) travestiti da miliziani clericali, il peggiore dei cattivi è uno psicotico sedicente crociato, una specie di eretico post-nucleare che fa di Padre Daniels, inquisitore suo malgrado, la versione apocalittica, impotente e positiva di un Eymerich indulgente e fin troppo compassionevole. L’ambientazione fantascientifica consente di bastonare con disinvoltura gli apparati del clero, dipinto nelle sue pur scarne risorse del duemilatrentuno come il luogo della doppiezza, dell’ambiguità, dello scontro di potere, anche se il potere in gioco in questa storia è ridotto alle briciole della ricchezza di un tempo, briciole disperse in una matrice di fango radioattivo da cui emergono però preziosi anelli, sigilli pontifici, reliquie e tesori di santi. D’altra parte, non può non colpire la scelta di affidare a un prete, dipinto come un puro, un uomo saldo nei suoi principi e ad ogni costo fedele alla sua missione, il ruolo dell’eroe. Il mondo di Avoledo è rappresentato in modo originalissimo, ma non sfugge all'aurea regola dell’era post-apocalittica di qualunque altra storia del genere: dopo che le leggi e le regole sono scomparse, dopo che le comunità umane sono rimaste prive di autorità, e l’etica è diventata un ricordo vago, non resta che la regressione ad uno stato animalesco, tribale, primitivo, con quel tanto di antropofagia e sadismo che ci renderebbero persino peggiori della più infima specie animale. Nessuno è in grado di smentire una tesi tanto diffusa, nessuno può nemmeno confutarla, fortunatamente, allo stato dei fatti. Ma si può essere di opinione ben diversa da quell'homo homini lupus che l'autore mette ripetutamente in bocca ai suoi personaggi come un mantra disperante e senz'appello.
Nell’ambito del Progetto “Metro 2033” di Dmitry Glukhovski, una specie di mega-romanzo web-born che sconfina nel videogioco (non a caso edito in Italia da Multiplayer, cui vanno i complimenti per aver fiutato e sviluppato da noi un progetto editoriale così interessante), e al quale stanno partecipando autori di tutto il mondo, “Le radici del cielo” rappresenta il punto di vista italiano sulla Terra post-apocalittica del 2033. Più precisamente, l’azione ha il suo incipit a Roma, nelle cui viscere (le catacombe di San Callisto) si annida una comunità di superstiti che vive in condizioni animalesche e che accoglie in sé una residuale e temibile autorità laica, ovvero il Consiglio del Comune (formato da tre famiglie di autentici criminali che sembrano la versione post-nucleare della Banda della Magliana, con tanto di sepoltura aristocratico-cristiana promessa ad uno dei suoi massimi esponenti) e una religiosa, ovvero il Nuovo Vaticano, formato dai pochi prelati raccolti intorno al cardinale Albani, sopravvissuto alla catastrofe. L’ultimo pontefice, un tedesco, è deceduto in circostanze descritte con cinico e gustoso umorismo, che non vi anticipiamo.
Il protagonista, un buono per antonomasia, è padre John Daniels, statunitense, che viene incaricato da Albani di recarsi a Venezia con lo scopo di mettersi in contatto con il Patriarca della città, che si mormora sia anch’egli sopravvissuto. A tal fine, Daniels viene nominato capo (nonché membro unico) della Congregazione per la Dottrina per la fede, ovvero la Santa Inquisizione. Il ricongiungimento con il Patriarca permetterà di indire un conclave ed eleggere il nuovo papa. Ciò che resta della chiesa romana intende infatti prepararsi per proseguire il ruolo che la storia le ha riservato per più di due millenni: la guida del mondo. Per svolgere il lunghissimo viaggio che si snoderà per l’EUR, la stazione metro Aurelia, e poi verso nord attraverso le vie abbandonate e innevate delle città di Torrita Tiberina, Urbino, Rimini e infine Venezia, padre Daniels godrà della protezione di un drappello scelto di sette Guardie Svizzere, agli ordini dell’ambiguo Capitano Durand. Ben lungi dal ricordare i folkloristici e sgargianti hellebardier della cancellata di frontiera in Via Ottaviano, gli armigeri del nuovo Vaticano sembrano prelevati direttamente da una divisione di US Marine sul set di Apocalypse Now. Il viaggio sarà un inferno, nel percorrere il quale padre Daniels vedrà la sua fede, già provata dalla catastrofe nucleare, messa di fronte a prove sempre più ardue.
Questo romanzo è pieno di trovate appassionanti, che arrivano a rendere digeribile e persino desiderabile la sua inenarrabile cupezza. La descrizione degli ambienti è raggelante e perfetta: non si fatica a visualizzare interamente lo scenario che viene tratteggiato, il suo ubiquitario grigio, la sporcizia perenne della neve come delle persone, il fetore che tutto e tutti pervade, al punto tale che i booktrailer accessibili in rete risultano in ultima analisi inadeguati a paragone con le nitide immagini che si creano nella lettura; se da un lato ci si sarebbe aspettato forse qualcosa di più nella descrizione delle rovine della Roma del 2033, basti qui sottolineare l’innegabile fascino della visione (onirica? Non possiamo svelarlo) della festa delle maschere veneziane sul Canal Grande in secca.
Usando una narrazione in prima persona e al presente, che non lascia il tempo di respirare, Avoledo decide di utilizzare come protagonisti del suo mondo post-atomico i personaggi della sparuta e farsesca Chiesa Cattolica del futuro. Il protagonista è un prete, i comprimari sono neopagani (e un musulmano) travestiti da miliziani clericali, il peggiore dei cattivi è uno psicotico sedicente crociato, una specie di eretico post-nucleare che fa di Padre Daniels, inquisitore suo malgrado, la versione apocalittica, impotente e positiva di un Eymerich indulgente e fin troppo compassionevole. L’ambientazione fantascientifica consente di bastonare con disinvoltura gli apparati del clero, dipinto nelle sue pur scarne risorse del duemilatrentuno come il luogo della doppiezza, dell’ambiguità, dello scontro di potere, anche se il potere in gioco in questa storia è ridotto alle briciole della ricchezza di un tempo, briciole disperse in una matrice di fango radioattivo da cui emergono però preziosi anelli, sigilli pontifici, reliquie e tesori di santi. D’altra parte, non può non colpire la scelta di affidare a un prete, dipinto come un puro, un uomo saldo nei suoi principi e ad ogni costo fedele alla sua missione, il ruolo dell’eroe. Il mondo di Avoledo è rappresentato in modo originalissimo, ma non sfugge all'aurea regola dell’era post-apocalittica di qualunque altra storia del genere: dopo che le leggi e le regole sono scomparse, dopo che le comunità umane sono rimaste prive di autorità, e l’etica è diventata un ricordo vago, non resta che la regressione ad uno stato animalesco, tribale, primitivo, con quel tanto di antropofagia e sadismo che ci renderebbero persino peggiori della più infima specie animale. Nessuno è in grado di smentire una tesi tanto diffusa, nessuno può nemmeno confutarla, fortunatamente, allo stato dei fatti. Ma si può essere di opinione ben diversa da quell'homo homini lupus che l'autore mette ripetutamente in bocca ai suoi personaggi come un mantra disperante e senz'appello.
In questo scenario di regressione sub-umana è ad un uomo di chiesa, un novello redentore, che viene affidato l’arduo ruolo del recupero del senso più vero dell’umanità. Un prete, che sebbene perda di fatto la fede nel suo dio, in nome di essa combatte fino all’ultimo; un uomo che rifiuta l’orrore contro ogni evidenza, che si ostina a trattare gli altri da essere umano autentico. Se da un lato siamo convinti che l’umanità di John Daniels non sia la necessaria conseguenza del suo essere un uomo di chiesa, dall’altro questa scelta non può non colpire. Sembra suggerire il pensiero che solo un potere spirituale sia in grado di porre rimedio al caos animalesco in cui il pianeta è stato gettato; sembra dichiarare l'idea che l’uomo è la nuda e disaggregata sommatoria di una razionalità animalesca votata alla sopravvivenza (unico motore dell’esistenza dei più) e di una componente immateriale che si identifica unicamente con quella spiritualità che la religione (che sia il cattolicesimo o il misticismo neopagano di alcuni dei soldati vaticani) sarebbe in grado di fornire. Non c’è spazio per l’umanità vera, quella che non essendo bestialità non è nemmeno di orgine divina o comunque "spirituale" nel senso più ampio. D’altra parte, l’impressione è che, più che essere stata smarrita, l’umanità, in questo romanzo, sia stata in qualche modo trasferita. Spostata, cioè, dalla specie umana “canonica”, quella dei bipedi dalla pelle glabra, sempre più prossima alla china dell’estinzione, ad alcune delle misteriose e mostruose specie ibride che si sarebbero formate (incomprensibilmente) in soli vent’anni di mutazioni genetiche intensive. Alcune di esse mostrano sentimenti di amicizia, e un senso altruistico della collettività, che l’uomo “normale” avrebbe perduto, arrivando addirittura (è il caso della creatura soprannominata Gregor Samsa, indovinate perché) a sacrificarsi per quest’ultimo. Solo in queste “nuove forme” di umanità (che ci ricordano il Mateson di Io sono Leggenda) sembra annidarsi il germe di una possibile rinascita. E in esse risiede a nostro parere la trovata più intelligente di tutto il romanzo. Ma il finale ci dirà di più (e comunque non abbastanza, lasciando aperta la porta a un sequel) su queste nuove forme di vita (umana?), e allora la genetica delle mutazioni, il misticismo e lo spiritualismo, e la traslazione delle anime nel tempo si mescoleranno in un coacervo di spiegazioni che forse spinge la valenza fantastica di questa storia al suo limite più estremo, sofisticato e difficile da decifrare, sebbene dotato di una sua fascinosa coerenza interna.
Forse stiamo andando oltre quella che dovrebbe essere una semplice recensione. Sta di fatto che questo romanzo merita davvero di essere letto. Magari... a stomaco vuoto.
Una sola certezza: da oggi non potrò più imboccare la superstrada E45 Orte-Ravenna senza guardarmi attentamente intorno. Se poi ci saranno anche buio e neve, spero che i cellulari continuino a funzionare.
Senza dover sperare in uno smartphone quantico donato da un misterioso scienziato russo rimasto intrappolato nelle catacombe di Roma.
Forse stiamo andando oltre quella che dovrebbe essere una semplice recensione. Sta di fatto che questo romanzo merita davvero di essere letto. Magari... a stomaco vuoto.
Una sola certezza: da oggi non potrò più imboccare la superstrada E45 Orte-Ravenna senza guardarmi attentamente intorno. Se poi ci saranno anche buio e neve, spero che i cellulari continuino a funzionare.
Senza dover sperare in uno smartphone quantico donato da un misterioso scienziato russo rimasto intrappolato nelle catacombe di Roma.
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