Immaginate una storia alternativa per il nostro pianeta. Ma non semplicemente una delle tante variazioni del flusso degli eventi storici, bensì qualcosa di più radicale.
Immaginate che sulla Terra si sia sviluppata una civiltà il cui progresso scientifico sia imperniato sulla manipolazione genetica di ogni forma di vita. Una civiltà in grado di costruire città con il tessuto vivente di multiformi specie arboree, di solcare il mare a bordo di grandi pesci-nave, di attaccare i suoi nemici con rampicanti velenosi, di studiare i tessuti utilizzando il potere di ingrandimento visivo di animali dotati di lenti naturali, di sparare usando come fucili i corpi sottili di bestie che emettono dalla loro bocca spore venefiche prodotte da altre piante a loro volta modificate, di combattere il freddo con animali termostatici da indossare, di suturare le ferite o nettare i corpi con animaletti coagulanti o pulitori. Gli individui di questa civiltà così fortemente integrata nel proprio ecosistema non sarebbero mai in grado di sopravvivere al di fuori della propria “città vivente”. Immaginate inoltre che essi vivano in una società matriarcale, in cui le femmine sono deputate alla guida della società, e i maschi invece sono considerati inabili ad altro che fecondare e allevare piccoli, e sono isterici, sottomessi, sciocchi e frivoli, oltre che sessualmente succubi delle femmine (donne, leggete questi libri!).
Ora, immaginate infine che gli esseri umani siano i soli odiati nemici di questa specie, e che la terra sia sede di conflitti fra “noi” e “loro”.
Qualunque “ucronia”, che sia ambientata nel presente o nel futuro, prende spunto dall’immaginaria modifica di un particolare evento storico, e la domanda a monte della narrazione è la classica “what if…”, ovvero “cosa sarebbe accaduto se…”
Nella Trilogia degli Yilanè, questo motore di fondo della fiaba ucronica raggiunge il parossismo: la domanda che Harry Harrison si pone e a cui nei tre romanzi (L’Era delle Yilanè, Il Nemico degli Yilanè e Scontro finale) dà la sua intrigante risposta è “cosa sarebbe accaduto se i dinosauri non si fossero mai estinti?”.
Potremmo obiettare facilmente che, in un caso simile, i mammiferi, nella scala evolutiva, avrebbero avuto la peggio, che il mondo sarebbe stato dominato dai rettili, e che di certo la selezione delle specie non sarebbe culminata nell’esistenza degli esseri umani.
Harrison immagina invece precisamente un pianeta in cui entrambe le classi, mammiferi e rettili, si sono evolute fino alla selezione di esseri intelligenti: Umani, e “Murgu”.
La vicenda prende il via dal rapimento del piccolo Kerrick, un bambino umano, ridotto in schiavitù dai sauri intelligenti dopo lo sterminio del suo Sammad, la tribù dei cacciatori. Grazie ad una vitalità fuori del comune, Kerrick dimostra di essere in grado di apprendere la loro lingua, e per questo motivo Vainté, l’Eistaa (ovvero la comandante con potere di vita e di morte su tutte le altre) della città di Alpeàsak, decide di salvare la sua vita e ne fa il suo servo personale.
Kerrick dimentica gradualmente le usanze umane e si integra completamente fra i Murgu (ovvero gli/le Yilané, in lingua murgu). Nel comunicare con essi, il suo corpo impara a muoversi esattamente come accade a loro: i sauri bipedi e intelligenti non si limitano ai suoni per parlare, perché anche le movenze di tutta la loro figura, la postura della coda e il movimento delle mani, e i cambiamenti di colore della loro pelle di esseri a sangue freddo, partecipano attivamente allo scambio di informazioni, di idee, e alla manifestazione delle emozioni.
Il piccolo prigioniero possiede due sole armi: la sua insopprimibile esigenza di sopravvivere e la capacità di mentire, che ai murgu invece non è consentita per la natura stessa del loro linguaggio “gestofonico”, in cui il movimento fisico e il colore della pelle tradiscono e impediscono ogni tentativo di simulazione, per l’esigenza di armonia fra corpo e parola (al punto che la massima simulazione consentita a un Yilanè è la reticenza).
Quando Kerrick parla, i murgu non hanno dunque motivo di dubitare della sua parola, e così conquista la loro fiducia.
La prigionia del ragazzo va avanti per anni di umiliazioni ed esperienze (fra cui un impensabile accoppiamento sessuale con la sua despota); infine, a seguito di una battaglia tra murgu e umani, Kerrick ritrova in sé la sua identità originaria e fugge, per tornare a vivere fra gli esseri a sangue caldo e ritrovarsi alla guida della ribellione al dominio dei sauri.
La trilogia è ricchissima di suggestioni, la cui portata, come di consueto, va spesso al di là della semplice trovata fantascientifica.
Per sviluppare questo ciclo, Harry Harrison inventò per intero tecnologia, linguaggio, epistemologia, cultura, e una vera e propria filosofia di vita, tipici di questa civiltà immaginaria, e spiegati con cura nelle appendici ai volumi.
Solo un autore del suo calibro poteva riuscire nell’impresa di rendere plausibile, quando non attraente, la creazione di un sistema di valori apparentemente incomprensibile agli esseri umani, ma dotato di una sua coerenza di fondo, tanto che il protagonista, Kerrick, non potrà mai rinnegare completamente la parte di cultura murgu che ha segnato la sua crescita, e il suo divenire una sorta di ibrido Umano-Yilanè. Il lettore non fatica a identificarsi con quest’ambivalente disposizione d’animo che caratterizza il protagonista rispetto ai suoi carcerieri, poi suoi nemici.
Se probabilmente non possiamo riconoscere all’autore la volontà consapevole di sviluppare uno studio “antropologico” (e “saurologico”, dovremmo aggiungere) immaginario in senso stretto, il risultato, pur senza il tramite della valenza scientifica delle riflessioni sociologiche di Ursula K. Le Guin o di M. Bishop, raggiunge appieno una simile vetta.
La società degli Yilané è fortemente gerarchizzata, suddivisa in classi, militarizzata e anti-democratica, ed ha una sua precisa logica organizzativa, con una forte connotazione rituale (che la fa apparire di stampo feudale) da un lato, e una altrettanto evidente vocazione ambientalista (che la fa sembrare invece estremamente progredita) dall’altro.
Se per il buon esito narrativo, oltre che per ovvie ragioni, sono gli esseri umani a rappresentare i “buoni”, la distribuzione dell’intelligenza terrestre, e delle qualità affettive, fra mammiferi e rettili è narrata all’insegna del tentativo perenne, e fruttuoso, di aggirare gli stereotipi.
Kerrick rispetta le Yilané. Se da un lato muove loro guerra perché gli uomini possano raggiungere un Eden in cui vivere al riparo dalle loro aggressioni, dall’altro ama e rispetta la loro cultura, e ne sente a tratti la nostalgia, non esitando a comprenderne la superiorità, rispetto all’arretratezza in cui vivono gli uomini. Kerrick è il solo essere umano in grado di parlare la lingua dei nemici, e una volta al di fuori della loro società non demorde dal tentativo di stabilire un contatto con i pochi individui propensi al dialogo. Non dimentica la natura sanguinaria della sua persecutrice, Vainté, ma nemmeno rimane cieco di fronte alla cultura “non violenta” delle “sorelle della vita” (una setta di Yilané che potremmo definire “pacifiste” e per questo perseguitate ed esiliate dalle altre), né di fronte alla fragilità sociale, e alla stolidità, dei maschi, ai quali, in un riuscito capovolgimento dei ruoli storici e deteriori dei due sessi, cerca di insegnare la via all’emancipazione dal dominio femminile. Non ammette, infine, che gli uomini uccidano le Yilané se non per difendere la propria vita, e prova tanto odio per le cacciatrici sanguinarie quanta ammirazione per le comandanti di nave dedite al loro "uruketo" (la nave vivente).
Kerrick è dunque l’individuo più profondamente e drammaticamente solo di tutta la Terra: troppo umano fra le Yilanè, troppo murgu fra gli esseri umani. Il solo punto di contatto fra due civiltà parallele in guerra perenne.
Grazie a questa sua identità, plasmata inizialmente dalla sua storia infantile e poi forgiata e rifinita dalla ritrovata umanità, Kerrick si innamora inoltre di una donna reietta, emarginata dagli altri per via di un lieve difetto fisico, e mette a frutto anche questa diversità, cimentandosi in un rapporto autenticamente sano, senza pregiudizi. Esattamente come con i sauri.
Se c’è un significato profondo di questi tre romanzi, probabilmente risiede nella fiducia che l’autore sembra nutrire nelle potenzialità dell’essere umano nel rapporto con il diverso, nella capacità di superare le barriere del pregiudizio, e fare dell’identità e della conoscenza lo strumento privilegiato per combattere la paura dell’altro da sé, e trovare invece in esso la fonte di nuova conoscenza e vitalità.
Immaginate che sulla Terra si sia sviluppata una civiltà il cui progresso scientifico sia imperniato sulla manipolazione genetica di ogni forma di vita. Una civiltà in grado di costruire città con il tessuto vivente di multiformi specie arboree, di solcare il mare a bordo di grandi pesci-nave, di attaccare i suoi nemici con rampicanti velenosi, di studiare i tessuti utilizzando il potere di ingrandimento visivo di animali dotati di lenti naturali, di sparare usando come fucili i corpi sottili di bestie che emettono dalla loro bocca spore venefiche prodotte da altre piante a loro volta modificate, di combattere il freddo con animali termostatici da indossare, di suturare le ferite o nettare i corpi con animaletti coagulanti o pulitori. Gli individui di questa civiltà così fortemente integrata nel proprio ecosistema non sarebbero mai in grado di sopravvivere al di fuori della propria “città vivente”. Immaginate inoltre che essi vivano in una società matriarcale, in cui le femmine sono deputate alla guida della società, e i maschi invece sono considerati inabili ad altro che fecondare e allevare piccoli, e sono isterici, sottomessi, sciocchi e frivoli, oltre che sessualmente succubi delle femmine (donne, leggete questi libri!).
Ora, immaginate infine che gli esseri umani siano i soli odiati nemici di questa specie, e che la terra sia sede di conflitti fra “noi” e “loro”.
Qualunque “ucronia”, che sia ambientata nel presente o nel futuro, prende spunto dall’immaginaria modifica di un particolare evento storico, e la domanda a monte della narrazione è la classica “what if…”, ovvero “cosa sarebbe accaduto se…”
Nella Trilogia degli Yilanè, questo motore di fondo della fiaba ucronica raggiunge il parossismo: la domanda che Harry Harrison si pone e a cui nei tre romanzi (L’Era delle Yilanè, Il Nemico degli Yilanè e Scontro finale) dà la sua intrigante risposta è “cosa sarebbe accaduto se i dinosauri non si fossero mai estinti?”.
Potremmo obiettare facilmente che, in un caso simile, i mammiferi, nella scala evolutiva, avrebbero avuto la peggio, che il mondo sarebbe stato dominato dai rettili, e che di certo la selezione delle specie non sarebbe culminata nell’esistenza degli esseri umani.
Harrison immagina invece precisamente un pianeta in cui entrambe le classi, mammiferi e rettili, si sono evolute fino alla selezione di esseri intelligenti: Umani, e “Murgu”.
La vicenda prende il via dal rapimento del piccolo Kerrick, un bambino umano, ridotto in schiavitù dai sauri intelligenti dopo lo sterminio del suo Sammad, la tribù dei cacciatori. Grazie ad una vitalità fuori del comune, Kerrick dimostra di essere in grado di apprendere la loro lingua, e per questo motivo Vainté, l’Eistaa (ovvero la comandante con potere di vita e di morte su tutte le altre) della città di Alpeàsak, decide di salvare la sua vita e ne fa il suo servo personale.
Kerrick dimentica gradualmente le usanze umane e si integra completamente fra i Murgu (ovvero gli/le Yilané, in lingua murgu). Nel comunicare con essi, il suo corpo impara a muoversi esattamente come accade a loro: i sauri bipedi e intelligenti non si limitano ai suoni per parlare, perché anche le movenze di tutta la loro figura, la postura della coda e il movimento delle mani, e i cambiamenti di colore della loro pelle di esseri a sangue freddo, partecipano attivamente allo scambio di informazioni, di idee, e alla manifestazione delle emozioni.
Il piccolo prigioniero possiede due sole armi: la sua insopprimibile esigenza di sopravvivere e la capacità di mentire, che ai murgu invece non è consentita per la natura stessa del loro linguaggio “gestofonico”, in cui il movimento fisico e il colore della pelle tradiscono e impediscono ogni tentativo di simulazione, per l’esigenza di armonia fra corpo e parola (al punto che la massima simulazione consentita a un Yilanè è la reticenza).
Quando Kerrick parla, i murgu non hanno dunque motivo di dubitare della sua parola, e così conquista la loro fiducia.
La prigionia del ragazzo va avanti per anni di umiliazioni ed esperienze (fra cui un impensabile accoppiamento sessuale con la sua despota); infine, a seguito di una battaglia tra murgu e umani, Kerrick ritrova in sé la sua identità originaria e fugge, per tornare a vivere fra gli esseri a sangue caldo e ritrovarsi alla guida della ribellione al dominio dei sauri.
La trilogia è ricchissima di suggestioni, la cui portata, come di consueto, va spesso al di là della semplice trovata fantascientifica.
Per sviluppare questo ciclo, Harry Harrison inventò per intero tecnologia, linguaggio, epistemologia, cultura, e una vera e propria filosofia di vita, tipici di questa civiltà immaginaria, e spiegati con cura nelle appendici ai volumi.
Solo un autore del suo calibro poteva riuscire nell’impresa di rendere plausibile, quando non attraente, la creazione di un sistema di valori apparentemente incomprensibile agli esseri umani, ma dotato di una sua coerenza di fondo, tanto che il protagonista, Kerrick, non potrà mai rinnegare completamente la parte di cultura murgu che ha segnato la sua crescita, e il suo divenire una sorta di ibrido Umano-Yilanè. Il lettore non fatica a identificarsi con quest’ambivalente disposizione d’animo che caratterizza il protagonista rispetto ai suoi carcerieri, poi suoi nemici.
Se probabilmente non possiamo riconoscere all’autore la volontà consapevole di sviluppare uno studio “antropologico” (e “saurologico”, dovremmo aggiungere) immaginario in senso stretto, il risultato, pur senza il tramite della valenza scientifica delle riflessioni sociologiche di Ursula K. Le Guin o di M. Bishop, raggiunge appieno una simile vetta.
La società degli Yilané è fortemente gerarchizzata, suddivisa in classi, militarizzata e anti-democratica, ed ha una sua precisa logica organizzativa, con una forte connotazione rituale (che la fa apparire di stampo feudale) da un lato, e una altrettanto evidente vocazione ambientalista (che la fa sembrare invece estremamente progredita) dall’altro.
Se per il buon esito narrativo, oltre che per ovvie ragioni, sono gli esseri umani a rappresentare i “buoni”, la distribuzione dell’intelligenza terrestre, e delle qualità affettive, fra mammiferi e rettili è narrata all’insegna del tentativo perenne, e fruttuoso, di aggirare gli stereotipi.
Kerrick rispetta le Yilané. Se da un lato muove loro guerra perché gli uomini possano raggiungere un Eden in cui vivere al riparo dalle loro aggressioni, dall’altro ama e rispetta la loro cultura, e ne sente a tratti la nostalgia, non esitando a comprenderne la superiorità, rispetto all’arretratezza in cui vivono gli uomini. Kerrick è il solo essere umano in grado di parlare la lingua dei nemici, e una volta al di fuori della loro società non demorde dal tentativo di stabilire un contatto con i pochi individui propensi al dialogo. Non dimentica la natura sanguinaria della sua persecutrice, Vainté, ma nemmeno rimane cieco di fronte alla cultura “non violenta” delle “sorelle della vita” (una setta di Yilané che potremmo definire “pacifiste” e per questo perseguitate ed esiliate dalle altre), né di fronte alla fragilità sociale, e alla stolidità, dei maschi, ai quali, in un riuscito capovolgimento dei ruoli storici e deteriori dei due sessi, cerca di insegnare la via all’emancipazione dal dominio femminile. Non ammette, infine, che gli uomini uccidano le Yilané se non per difendere la propria vita, e prova tanto odio per le cacciatrici sanguinarie quanta ammirazione per le comandanti di nave dedite al loro "uruketo" (la nave vivente).
Kerrick è dunque l’individuo più profondamente e drammaticamente solo di tutta la Terra: troppo umano fra le Yilanè, troppo murgu fra gli esseri umani. Il solo punto di contatto fra due civiltà parallele in guerra perenne.
Grazie a questa sua identità, plasmata inizialmente dalla sua storia infantile e poi forgiata e rifinita dalla ritrovata umanità, Kerrick si innamora inoltre di una donna reietta, emarginata dagli altri per via di un lieve difetto fisico, e mette a frutto anche questa diversità, cimentandosi in un rapporto autenticamente sano, senza pregiudizi. Esattamente come con i sauri.
Se c’è un significato profondo di questi tre romanzi, probabilmente risiede nella fiducia che l’autore sembra nutrire nelle potenzialità dell’essere umano nel rapporto con il diverso, nella capacità di superare le barriere del pregiudizio, e fare dell’identità e della conoscenza lo strumento privilegiato per combattere la paura dell’altro da sé, e trovare invece in esso la fonte di nuova conoscenza e vitalità.
Eccellente prova anche del traduttore Gianluigi Zuddas.
Un altro esempio della miglior "fantascienza umana”.
Un altro esempio della miglior "fantascienza umana”.
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