Alcuni lo definiscono una fiaba, altri un romanzo. “Il segreto del bosco vecchio” di Dino Buzzati, autore celeberrimo per il “Deserto dei Tartari” è in realtà un lungo racconto fantastico che, se non fosse scritto nell’italiano fascinoso dei primi anni ‘30, parrebbe attualissimo. La lettura del testo in un volumetto Garzanti del 1957 che prende il titolo dal primo dei due racconti ivi contenuti, “Barnabo delle montagne”, ha certamente reso ancor più facile immergersi in una suggestiva atmosfera letteraria retrò.
La storia ha una costruzione ingenua, a cui concorre lo stile asciutto e disadorno, che non nasconde l’identità del giornalista del primo novecento, manierato secondo gli eleganti canoni dell’epoca. La lettura è agile, veloce, divertente, traboccante di trovate dal tono fra il fiabesco e l’onirico.
Sebastiano Procolo, colonnello in pensione, uomo senza scrupoli, intende disfarsi di suo nipote Benvenuto. Il ragazzino è l’erede del terreno su cui il bosco sorge, e Sebastiano, suo tutore, vuole diventarne proprietario unico e abbatterne gli alberi a fini speculativi. Tenta perciò di ucciderlo con la complicità di un vento, che ha nome Matteo, che gli deve gratitudine per averlo liberato dalla prigionia trentennale in una caverna. Matteo però è alla fine della sua carriera, e fallisce il suo obiettivo. Un nuovo vento, Evaristo, più giovane e assennato di lui, lo sconfiggerà in un duello all’ultima nube, e lo sostituirà nel dominio della valle. Sebastiano intrattiene pessimi rapporti con i geni che vivono all’interno degli alberi, e con le gazze che si alternano a sorvegliare la proprietà, tanto da ucciderne una a freddo nel cuore della notte perché disturba il suo sonno con falsi allarmi. L’umanizzazione degli animali sapientemente messa in scena nel racconto fa di questo atto un pugno nello stomaco. È questo il biglietto da visita con cui Sebastiano si annuncia a un tempo al bosco vecchio e al lettore.
“Il Procolo” è un degno erede di Ebenezer Scrooge, un uomo senza affetti, un cattivo per antonomasia, che si ritrova ad ascoltare in segreto il processo condotto in contumacia a suo carico dall’assise degli uccelli della foresta, e che diventa infine buono e prende a cuore la sorte del piccolo. Abbandona i suoi propositi infanticidi, e si piega al volere dei geni del bosco e degli alberi di cui essi sono simbionti.
La storia, a tratti molto cruda, è una celebrazione ammaliante e continua della fantasia dell’infanzia: sarebbe infatti la mente di Benvenuto a partorire tutti gli elementi animati del luogo, che finiscono però per avere vita propria. Se da un lato l’autore ci propone, verso il finale, l’idea che il piccolo è destinato a perdere questa fantasia facendosi adulto, dall’altro la sua infausta profezia è smentita dalla storia stessa, il cui protagonista anziano non ha mai perso la capacità di comunicare con i topi, biasimare gli alberi, condannare gli uccelli e dare ordini ai venti.
Sullo sfondo di tutto ciò, che è già parecchio, la storia di una trasformazione. Dopo il tentativo fallito di omicidio, l’ombra di Sebastiano Procolo si ribella al suo proprietario affermando di non voler rimanere al suo servizio, perché “non lo riconosce più”. Giunto a questo punto, l’uomo comprende la portata delle sue azioni, e subisce un cambiamento radicale, fino a tentare di salvare la vita di Benvenuto, che erroneamente crede sepolto sotto una slavina procurata dal vento. Il vento stesso, Matteo, sembra in effetti una proiezione del vecchio, riflettendone la potenza cinica e crudele all’inizio del racconto e la benigna affezione per il ragazzo nella seconda parte. È forse questo il registro più alto della storia: l’anziano uomo perde l’immagine di sé, non si riconosce più e, terrorizzato dal rischio di impazzire, di nascosto dal vento suo complice, riprende a lottare per la sopravvivenza del piccolo Benvenuto, bimbo gracile e malaticcio. Sebastiano Procolo pagherà la sua anaffettività a caro prezzo: nel suo stile sobrio ed efficace Buzzati descrive quella che pare una vera depressione in senso clinico, da cui purtroppo il vecchio ormai non potrà più uscire, fino a morirne, congelato appunto, nel cuore del bosco.
Il Bosco Vecchio di Buzzati è un luogo nel quale ci si rifugia volentieri. Un luogo da cui sembrano provenire tutti i boschi incantati delle favole più riuscite, e forse, della letteratura fantasy dei nostri giorni; l’archetipo letterario di un intero genere. L’immagine di un’infanzia del secolo scorso, con la sua ingenuità, le sue paure, la sua incertezza, le regole inique, le inesauribili speranze e la potenza dei suoi fantasmi buoni.
Un posto in cui spererete di ritrovarvi ogni volta che varcherete la soglia di una foresta.
La storia ha una costruzione ingenua, a cui concorre lo stile asciutto e disadorno, che non nasconde l’identità del giornalista del primo novecento, manierato secondo gli eleganti canoni dell’epoca. La lettura è agile, veloce, divertente, traboccante di trovate dal tono fra il fiabesco e l’onirico.
Sebastiano Procolo, colonnello in pensione, uomo senza scrupoli, intende disfarsi di suo nipote Benvenuto. Il ragazzino è l’erede del terreno su cui il bosco sorge, e Sebastiano, suo tutore, vuole diventarne proprietario unico e abbatterne gli alberi a fini speculativi. Tenta perciò di ucciderlo con la complicità di un vento, che ha nome Matteo, che gli deve gratitudine per averlo liberato dalla prigionia trentennale in una caverna. Matteo però è alla fine della sua carriera, e fallisce il suo obiettivo. Un nuovo vento, Evaristo, più giovane e assennato di lui, lo sconfiggerà in un duello all’ultima nube, e lo sostituirà nel dominio della valle. Sebastiano intrattiene pessimi rapporti con i geni che vivono all’interno degli alberi, e con le gazze che si alternano a sorvegliare la proprietà, tanto da ucciderne una a freddo nel cuore della notte perché disturba il suo sonno con falsi allarmi. L’umanizzazione degli animali sapientemente messa in scena nel racconto fa di questo atto un pugno nello stomaco. È questo il biglietto da visita con cui Sebastiano si annuncia a un tempo al bosco vecchio e al lettore.
“Il Procolo” è un degno erede di Ebenezer Scrooge, un uomo senza affetti, un cattivo per antonomasia, che si ritrova ad ascoltare in segreto il processo condotto in contumacia a suo carico dall’assise degli uccelli della foresta, e che diventa infine buono e prende a cuore la sorte del piccolo. Abbandona i suoi propositi infanticidi, e si piega al volere dei geni del bosco e degli alberi di cui essi sono simbionti.
La storia, a tratti molto cruda, è una celebrazione ammaliante e continua della fantasia dell’infanzia: sarebbe infatti la mente di Benvenuto a partorire tutti gli elementi animati del luogo, che finiscono però per avere vita propria. Se da un lato l’autore ci propone, verso il finale, l’idea che il piccolo è destinato a perdere questa fantasia facendosi adulto, dall’altro la sua infausta profezia è smentita dalla storia stessa, il cui protagonista anziano non ha mai perso la capacità di comunicare con i topi, biasimare gli alberi, condannare gli uccelli e dare ordini ai venti.
Sullo sfondo di tutto ciò, che è già parecchio, la storia di una trasformazione. Dopo il tentativo fallito di omicidio, l’ombra di Sebastiano Procolo si ribella al suo proprietario affermando di non voler rimanere al suo servizio, perché “non lo riconosce più”. Giunto a questo punto, l’uomo comprende la portata delle sue azioni, e subisce un cambiamento radicale, fino a tentare di salvare la vita di Benvenuto, che erroneamente crede sepolto sotto una slavina procurata dal vento. Il vento stesso, Matteo, sembra in effetti una proiezione del vecchio, riflettendone la potenza cinica e crudele all’inizio del racconto e la benigna affezione per il ragazzo nella seconda parte. È forse questo il registro più alto della storia: l’anziano uomo perde l’immagine di sé, non si riconosce più e, terrorizzato dal rischio di impazzire, di nascosto dal vento suo complice, riprende a lottare per la sopravvivenza del piccolo Benvenuto, bimbo gracile e malaticcio. Sebastiano Procolo pagherà la sua anaffettività a caro prezzo: nel suo stile sobrio ed efficace Buzzati descrive quella che pare una vera depressione in senso clinico, da cui purtroppo il vecchio ormai non potrà più uscire, fino a morirne, congelato appunto, nel cuore del bosco.
Il Bosco Vecchio di Buzzati è un luogo nel quale ci si rifugia volentieri. Un luogo da cui sembrano provenire tutti i boschi incantati delle favole più riuscite, e forse, della letteratura fantasy dei nostri giorni; l’archetipo letterario di un intero genere. L’immagine di un’infanzia del secolo scorso, con la sua ingenuità, le sue paure, la sua incertezza, le regole inique, le inesauribili speranze e la potenza dei suoi fantasmi buoni.
Un posto in cui spererete di ritrovarvi ogni volta che varcherete la soglia di una foresta.
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